Autore:  Amilcare Dova / Alfredo Pichi
Tipologia:  Articolo in "Al Cinemà", anno 2°, n. 7, 18 febbraio 1923
Film di riferimento:  Dante nella vita e nei tempi suoi (Italia, 1922) Regia di Domenico Gaido. Soggetto e sceneggiatura: Valentino Soldani. Fotografia: Carlo Montuori, Emilio Peruzzi. Scenografia: Giuseppe Castellucci (per le ricostruzioni architettoniche), Carlo Bonafede (interni, utensili, armi). Consulenza storica e letteraria: Guido Biagi, Isidoro Del Lungo, G. Lando Passerini. Interpreti: Guido Maraffi (Dante Alighieri), Amleto Novelli (Segna de'Calligai), Diana Karenne (Coronella dei Lottaringhi), Armando Cresti (Corso Donati), Celeste Paladini-Andò (Monalda de'Calligai), Vittorio Evangelisti (Lippo de'Calligai), Perla Lottini (Beatrice), Gino Soldarelli (Ristoro della Sarnella), Totò Lo Bue (Guido Novello), Eugenio Gilardoni (Conte Ugolino de la Gherardesca), Ruggero Barni (Spinello dei Lottaringhi), Gemma Donati (Fiamma Donati), Adriana Benvenuti (Costanza della Sarnella), Rodolfo Geri, Valentina Frascaroli
Editore:  Casa Editrice "Amore"
Origine:  Torino
Anno:  1923
Caratteristiche:  Rivista in fascicolo
Edizione:  anno 2°, n. 7, 18 febbraio 1923
Pagine:  16
Dimensioni:  cm. 30 x 20
Note: 
Numero speciale della rivista illustrata Al Cinemà (anno 2°, n. 7, 18 febbraio 1923) quasi interamente dedicato al film Dante nella vita e nei tempi suoi diretto dal regista e scenografo torinese Domenico Gaido (1875-1950). Il film fu girato nel 1921 ma uscì solamente alla fine dell’anno successivo.
Gaido entrò nel mondo del cinema grazie alla sua abilità di realizzatore di manifesti teatrali e pubblicitari. Come scenografo e costumista lavorò alla realizzazione di Jone o Gli ultimi giorni di Pompei (1913) di Ubaldo Maria Del Colle e Giovanni Enrico Vidali e di Spartaco (1913) di G. E. Vidali. Debuttò alla regia nel 1914 con un “dramma passionale” La sfera della morte con Cristina Ruspoli, e con Salambò, tratto dal romanzo di Gustave Flaubert con Suzanne De Labroy. In seguito diresse Il ponte dei sospiri e La congiura di San Marco, entrambi ispirati ai romanzi storici dello scrittore francese Michel Zévaco. Quando esaurì la sua esperienza nel cinema torinese proseguì la propria attività di costumista per il Teatro dell’Opera di Roma. E come costumista riprese a lavorare, dal 1940 in poi, nell’industria cinematografica.
NELLA GALLERY SONO RIPRODOTTE LE PAGINE DELLA RIVISTA
Dante nella vita e nei tempi suoi è uno dei film più lunghi della storia del cinema muto italiano. Girato interamente a Firenze, fu un’avventura produttiva nata per “volgarizzare per il mondo la vita, il pensiero e l’opera del Poeta divino” e celebrarne il sesto centenario della morte (1921). In vista di quella scadenza, nel 1920, il conte fiorentino Giovanni Montalbano, che come imprenditore aveva già prodotto alcune pellicole con una propria casa di produzione, associò la sua azienda con la “Cito cinema”, e costituì la “Dante Film”.
Il soggetto e la sceneggiatura furono affidati al drammaturgo Valentino Soldani (considerato a quell’epoca un innovatore del teatro storico italiano), che aveva affiancato Montalbano nella sua avventura produttiva. A coadiuvare Soldani fu uno stuolo di consulenti, tra cui dantisti Isidoro Del Lungo, Guido Biagi (con il quale, in seguito, ebbe contrasti), Giuseppe Lando Passerini e Corrado Ricci, insieme allo studioso e docente Paolo Boselli e allo scrittore e drammaturgo Sem Benelli. Nel gennaio 1921 fu acquistato un vasto terreno nella zona di Rifredi, in via delle Panche, su cui furono costruite 42 scenografie (tra esterni e interni), che prevedevano una veridica ricostruzione della Firenze medievale, con il Battistero e le abitazioni dei Cerchi, dei Donati, dei Portinari, oltre al Ponte Vecchio che, all’epoca, era priva delle sue caratteristiche botteghe. Vennero pure realizzati oltre 2000 costumi d’epoca.
Ci si rivolse a interpreti rinomati (come il divo Amleto Novelli) ai quali furono garantiti lauti contratti (la duttile attrice e regista polacca Diana Karenne, che non aveva un ruolo da protagonista, ricevette il considerevole compenso di 200mila lire). Per la regia si pensò a Gabriellino D’Annunzio (il figlio del poeta che aveva già diretto La nave), preferendogli poi Gaido, anche per via della sua esperienza di scenografo che gli consentiva un controllo da art director . Tutto questo doveva concorrere al successo di un film destinato a rafforzare l’immagine dell’industria cinematografica italiana.
Ma che l’impresa fosse destinata a incepparsi lo si notò fin dall’inizio. Montalbano e i suoi soci avevano tentato, senza riuscirci, di coinvolgere nel progetto l’UCI (l’Unione Cinematografica Italiana). Secondo loro, era questa l’occasione buona per erigere un nuovo stabilimento cinematografico in Toscana, che avrebbe dovuto competere con quelli romani e torinesi. Una volta sgonfiatasi tale ipotesi e per sostenere l’ingente spesa del film, si pensò di costituire, nel luglio 1920, una terza società, la “V.I.S.” (Visioni Italiane Storiche). Ad assumere la direzione di questa società, di cui Montalbano rimase amministratore, fu la Banca di Sconto.
Le riprese iniziarono nel luglio del 1921 ma dopo qualche mese (a causa di una crisi di liquidità della produzione e del fallimento della trattativa per la vendita del film negli Stati Uniti) subirono una serie di brusche interruzioni che impedirono il rispetto dei piani di lavorazione. Questo ritardo fu fatale al film, soprattutto per via della corsa alla data per la celebrazione dell’anniversario dantesco, che fu vinta da un progetto concorrente della Tespi Film, La mirabile visione (1921),diretto da Luigi Sapelli, un altro kolossal ad episodi dedicato alla vita e alle “sublimazioni poetiche di Dante”.
Entrata in crisi dopo pochi mesi dalla sua costituzione, La V.I.S. venne messa in liquidazione nel febbraio del 1922, proprio quando Dante nella vita e nei tempi suoi era finalmente pronto. Le uscite del film, una volta che venne acquistato da una quarta azienda (il “Sindacato Film Storiche”), furono irregolari e prive di una campagna pubblicitaria adeguata. A rendere più complicata la distribuzione del film fu la sua inusitata lunghezza (3.645 metri), a cui si cercò di rimediare con una serie di tagli. Una delle prime visioni di Dante nella vita e nei tempi suoi avvenne a Livorno verso la fine del 1922, ma solamente nel febbraio del 1923 il film uscì nelle sale di Roma (al Cinema Teatro Capranica dove il programma di sala recitava “Il più grande film italiano della rinascita”) e fu programmato a Torino nel 1925, quando era già stato utilizzato da tempo per proiezioni didattiche in collegi, oratori e licei.
“La figura di Dante non si può pienamente comprendere se non attraverso una limpida e serena visione della sua opera. E la Commedia che tutti i popoli del mondo hanno chiamato Divina, vive e palpita dei sentimenti e dei risentimenti dell’età in cui fu composta. Dante si conosce soltanto se ci sian noti i tempi di cui si eresse giudice immortale.” (dal Programma di sala del film)
Il film è stato restaurato nel 1995 dalla Cineteca di Bologna (Immagine Ritrovata), con il contributo della Provincia di Ravenna e del Progetto Lumière
SINOSSI
A Firenze infuria la lotta tra i guelfi e i ghibellini. Una fazione dei guelfi, capeggiata dall’arrogante patrizio Corso Donati, è prima denominata dei “donateschi” e poi dei “guelfi neri” quando si oppone alla fazione dei popolani, tra i quali milita Dante Alighieri. Quando i guelfi sconfiggono i ghibellini, per fronteggiare l’impeto popolare, Corso Donati induce le famiglie dei Lattaringhi e dei Galigai a troncare la loro contesa e a stringere un patto, che dovrà essere suggellato dalla nozze tra Segna de’Galigai e Coronella, sorella di Spinello, il capo dei Lottaringhi. Ma Coronella, che è monaca, rifiuta le nozze. Allora Corso si introduce con la forza nel convento e la rapisce, costringendola poi a sposare Segna. Ma si tratta di nozze bianche, perché Coronella minaccia di suicidarsi se verrà violata.
I guelfi neri di Donati, tra i quali c’è Segna e suo fratello Lippo, il quale è perdutamente innamorato di Coronella, riescono a sconfiggere i Ghibellini. Nella battaglia, Segna resta ferito e viene amorevolmente curato dalla moglie. La vecchia Monalda, zia di Segna e gelosa custode dell’onorabilità familiare, vede in Coronella l’origine dei mali che si addensano sull’aristocrazia, e istiga il nipote ad uccidere la moglie. Inizialmente Segna viene irretito dalle calunnie della perfida zia, ma a distoglierlo dal delitto è la purezza della preghiera che Coronella recita. Il pentimento è tale che egli è spinto dalla propria coscienza a implorare il perdono della moglie. Nel frattempo, Spinello dei Lattaringhi, diventato pellegrino per scontare la propria debolezza che lo ha spinto ad accettare le nozze della sorella, vaga per l’Italia e con i suoi messaggi di fede e di pace raccoglie molti proseliti. Il suo sogno però non si realizza, ed egli muore mentre tenta di indurre Arrigo VII a diventare re di un’Italia unita. A Firenze, intanto, le file ghibelline si sono riunite, infiammate dalla parola di Dante. Ancora una volta Corso Donati e Segna de’Galigai si ritrovano complici per combattere i rivoltosi, mentre Lippo, rimasto a casa, non riesce più a tacere il proprio amore per Coronella. Quando Segna torna, la vecchia Monalda, ricordandogli il colpevole amore tra Paola e Francesca, e agitando il paragone con Coronella e Lippo, spinge il nipote al delitto. Questa volta Segna casca nella trappola della vecchia e uccide il fratello e la moglie, dalla quale riceve in extremis un bacio d’amore. La morte di Corso Donati in battaglia e quella di Dante, colpito dalla malaria mentre si trova a Ravenna per scongiurare un conflitto con i veneziani, concludono la vicenda.
Nella scena finale scopriamo il figlio di Dante che vaga alla ricerca dell’ultima parte della Commedia, la grande opera paterna. Una visione notturna lo ispira ed egli trova il manoscritto nascosto nella finestra della stanza del poeta.
DALLA CRITICA
“Un film su Dante e la sua vita si presentava come un problema assai grave, perché era facile cadere nel grottesco o venir meno a quella dignità artistica che pur era non solo necessaria, ma doverosa ed indispensabile.
(…) Valentino Soldani, conoscitore profondo del ferreo e travagliato Trecento, ha composto una vicenda nella quale il dramma politico, il dramma civile ed il dramma umano di quel secolo si fondono e si compenetrano, ripercuotendosi sull’animo e sulla vita di Dante, più che non lo travolgono gli avvenimenti turbinosi e gravi. Si può dire che la visione storica di Soldani faciliti la comprensione di Dante stesso, l’aiuti e la popolarizzi, lasciando travedere da quali movimenti sociali e politici maturò la coscienza di lui e trasse la sua arte la prima ispirazione. Ma fino a qual punto le intenzioni del Soldani sono state raggiunte? L’ampiezza dell’argomento e del suo sviluppo, il cumulo degli episodi storici e letterari, riferentesi alla Commedia, che esso abbraccia e prospetta, la moltitudine dei personaggi, rendono il film farraginoso (…).
Tuttavia rimangono salvi tutti i valori ideali dell’opera. Ma non possiamo sottacere il nostro disappunto per l’abuso di alcuni simbolismi che appariscono troppo rudi e realistici. Quelle piogge di rose celesti, quelle apparizioni di angeli con ali di cartone o di demoni mascherati non possiamo approvarle. Ci sembrano di cattivo gusto, volgari ed oleografiche. (…) La sosta di Dante sotto il balcone di Beatrice ormai sposata, mentre i ricordi dell’infanzia e della giovinezza lo assalgono, dura un po’ troppo e rende il poeta così smemorato lì sotto, alquanto ridicolo. È per lo meno inopportuno il momento in cui tutto ciò avviene. La materializzazione del sogno di Dante, di venir incoronato poeta nel bel San Giovanni, è urtante e sgradevole per la sua materializzazione.L’integramento delle figure e dei casi di Piccarda Donati, di Pia de’ Tolomei e di Francesca da Rimini, se bene rispondano ad illustrare il dramma umano, che si svolge in concordanza e in dipendenza col dramma civile dilaniante Firenze, con le lotte, cioè, delle fazioni e delle famiglie, rallenta l’azione e la rende prolissa e tediosa. L’identicità delle situazioni, l’analogia dei casi sminuiscono l’effetto che se ne voleva ricavare, scoprono l’espediente teatrale, il mezzuccio del loro collegamento. Nulla di meno le lotte partigiane dei Cerchi e dei Donati, le competizioni delle loro fazioni, logoranti e travaglianti Firenze, il dramma passionale di Coronella dei Lottaringhi e di Segna de’Calligai, e conseguenza di quelle, il tormento di Dante, la sua dolorosa passione per Firenze e per l’Italia, il suo profetico sogno dell’unità italica, ottengono un considerevole rilievo e formano la parte viva e vitale di tutto il film.
Fedeli ed ardite le ricostruzioni, disciplinatele masse e ottimo il gioco scenico di tutti gli attori, fra i quali ricorderemo Amleto Novelli, Diana Karenne e il Maruffi.
Ad ogni modo, prescindendo dai suoi difetti, tenendo conto di tutto il meglio che c’è, Dante nella vita e nei tempi suoi, come film, rappresenta uno sforzo di operosità non comune e un’opera di fervida italianità, dove le bellezze abbondano insieme con un diffuso sentimento dell’arte e dalla quale s’apprende come la storia dolorosamente si rinnovi nei tempi e sorge un ammonimento per noi che rinnoviamo le gesta delle fazioni e gli odii di parte, contro cui Dante scagliò il suo anatema.
Soldani che ideò la trama e progettò il lavoro, Domenico Gaido, che ne curò con animo d’artista la messa in scena, la V.l.S. , che provvide i poderosi mezzi finanziari che permisero la realizzazione della visione storica, Carlo Montuori e Emilio Peruzzi che la ritrassero con magnifica fotografia, possono dirsi soddisfatti e andar onorati di questa loro fatica, dove la genialità italiana ancora una volta sprizza e si afferma.” (Bombance, in “La rivista cinematografica”, Torino, 25 marzo 1923)
” Non è facile cosa fermare in poche righe le impressioni complesse e contraddittorie che la visione di questo film risveglia. Gli occhi sono abbagliati dallo splendore fastoso di una messa in scena superba, con decorazioni degne veramente di un super-film (la parola è, ormai, di moda!). Ma il cuore, il sentimento, rimangono inerti e non paghi, (…) per cui si esce dal teatro scontenti, pur dovendo, in coscienza, affermare che il lavoro è bello (…). Il soggetto è gigantesco nella concezione: la vita di Dante, nei suoi episodi più significativi e salienti. Questo, almeno, nella intenzione di Valentino Soldani, ché nell’esecuzione – quale appare sullo schermo – la vita vera di Dante è rappresentata da troppo pochi fuggevoli quadri, i quali troppo poco di Lui, e da molti altri nei quali la sua sublime figura si sperde in allegorie e ricordi staccati; d’alto significato morale forse in un’opera ben più complessa, ma inutile in questa breve sintesi. (…) La farragine di frammenti diversi, vero mosaico di quadri buttati a caso, quasi, e tolti un pó qua, un pó là dalla storia, con poco nesso e nessuna continuità, i ritorni leggendari e ricorsi storici di episodietti del sommo Poeta, o triti, e perciò senza originalità, o di pochissima importanza; le allegorie troppo ripetute e non sempre di buon gusto né fedeli: tutto ciò riempie e rimpinza l’azione, in modo tale ch’essa si snoda faticosa ed ansimante (…). Dante ha un profilo perfetto nel viso di Guido Maraffi. L’azione di questo attore (…) è uniforme, fredda, incolore, tanto più a contatto col Calligai, col Donati, col Ristoro ed altri, così potentemente vivi e vitali: non manca, tuttavia, di un’estrema compostezza e di una forte dignità (…) ” (Giuseppe Lega, in “La vita cinematografica”, Torino, 28 febbraio 1923)
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