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Barilli e la città anni Dieci che battezzò “Medusa”

Barilli e la città anni Dieci che battezzò “Medusa”

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Tipologia:  Articolo

Testata:  La Repubblica, ed. Palermo

Data/e:  9 aprile 2017

Autore:  Umberto Cantone

Articolo: 

Tra i titoli meno noti della singolare officina letteraria del giornalista, musicologo e compositore di Fano, Bruno Barilli, c’è la raccolta dei suoi scritti di viaggio (apparsi in periodici tra gli anni Venti e Quaranta) “da Venezia alla costa amalfitana, dalla Sicilia a Milano”, che fu pubblicata nello stesso anno della sua morte, il 1952, col titolo “Lo stivale”. Chiunque abbia frequentato anche solamente i saggi e le recensioni musicali di questo funambolo della scrittura, che fu tra i fondatori della rivista avversa alle avanguardie “La ronda”, non può che dare ragione al critico Emilio Cecchi (suo estimatore e pure lui “rondista”) quando parla di un modo «che ha dell’erratico e magico » nel lavico procedere della sua prosa, segnata da una vocazione “sinfonica”.

Può ancora sorprendere il lettore di oggi lo stile espressionista di questo sperimentatore decadente che mescola esattezza e invenzione, vertiginosità letteraria e acutezza analitica, la materia di cui sono fatti libri come “Il sorcio nel violino” (1926), o “Il “paese del melodramma” (uscito nel ’29 e rarissimo con la copertina illustrata da Scipione), o il più noto e autobiografico “Capricci di vegliardo” (1951).

In “Lo stivale” c’è tutto il Barilli esorbitante e bohémien (come lo identifica Arbasino) che sa come far brillare, confondendole, l’esperienza di reporter di viaggio e quella di critico teatrale. Lo fa mirabilmente quando, nel capitolo siciliano, paragona alla musica di Cimarosa la «divertente geografia» isolana, un paesaggio fatto di «alti e bassi improvvisi e panorami ampissimi e lievi». O quando rievoca il proprio soggiorno al San Domenico di Taormina, «l’hotel più ben tenuto e quieto che io abbia visto mai», attraverso l’immagine delle sue «cameriere mute che, come suore, camminano veloci su suole di feltro». C’è poi la scheggia autobiografica il cui teatro è la Palermo degli anni Dieci, dove Barilli si ritrovò da giovanissimo, inquilino di uno studio fotografico, a fare le ore piccole componendo al pianoforte “Medusa”, la sua opera lirica d’esordio, mentre un lucernario aperto sul suo capo svelava «una colata lacrimosa » di stelle cadenti che «strisciava su Monte Pellegrino». A spiarlo, notte dopo notte, c’erano il padrone di casa e la consorte che, secondo lui, si nascondevano come i briganti del “Fra Diavolo” di Auber: «Furono essi il mio primo pubblico, e vi potrei giurare che appartenevano, in quel momento, al moto celeste che la musica traeva seco».

Così Barilli, scrittore errante, spiegò al lettore perché poteva pretendere che la sua lontana “Medusa” entrasse a far parte dell’ «astronomia siciliana».

 

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