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Attori d’autore – Scritto in occasione della Mostra “Al di là dei limiti della rappresentazione” – Settembre 2012

Attori d’autore – Scritto in occasione della Mostra “Al di là dei limiti della rappresentazione” – Settembre 2012

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Tipologia:  Note

Data/e:  18 giugno 2013

Autore:  Umberto Cantone

Articolo: 

VOLTI DEL CINEMA ITALIANO – Carlo Bestetti Edizioni d’Arte, Roma, 7 maggio 1952

di Umberto Cantone

Scritto in occasione della mostra “Al di là dei limiti della rappresentazione – Letteratura e cultura visuale” organizzata dalla Facoltà di Scienze della Formazione di Palermo ( Grand Hotel Piazza Borsa, Palermo, 24 / 26 settembre 2012 )

VOLTI DEL CINEMA ITALIANO

30  fotografie in bianco e nero

di Aldo, Cantera, Dial, Augusto Di Giovanni, Invernizzi, Ronald,  Vaselli, Villoresi 

30 didascalie  

di Corrado ALVARO, G.B. ANGIOLETTI, Anna BANTI, Goffredo BELLONCI, Maria BELLONCI, Luigi BONELLI, Vitaliano BRANCATI, Remo CANTONI, Vincenzo CARDARELLI, Emilio CECCHI,  Silvio D’AMICO,  Libero DE LIBERO, Diego FABBRI, Alfonso GATTO, Carlo LEVI, Gianna MANZINI, Milena MILANI,  Elsa MORANTE, Alberto MORAVIA,  Vasco PRATOLINI, Salvatore QUASIMODO, Raul RADICE, Domenico REA, Alberto SAVINIO, Vittorio SERENI, Renato SIMONI, Dino TERRA, Orio VERGANI, Cesare Giulio VIOLA, Elio VITTORINI

A prima vista sembra uno dei tanti sontuosi reperti ai quali ci ha abituati, a partire dagli anni Venti, l’editoria promozionale legata al cinema italiano, questa galleria in bianco e nero di trenta ritratti fotografici di attrici e attori, scatti realizzati sul set o in studio, package iconografico (o ipoconografico) di volti appartenenti ai divi in voga durante la parabola ascendente della nostrana industria di film: Volti del cinema italiano è una cartella data alle stampe a Roma il 7 maggio 1952 per la rinomata “Carlo Bestetti – Edizioni d’Arte”, composta graficamente dal pittore metafisico Fabrizio Clerici e recante il marchio della “Unitalia Film – I. F. E.”,  una società che ancora oggi si occupa della diffusione del cinema italiano all’estero. Sembrerebbero, queste fotografie, solamente il pretesto per un singolare (e da allora mai replicato) progetto di promozione culturale, probabilmente architettato con la complicità di quell’instancabile organizzatore di eventi non solo editoriali che fu Emilio Cecchi, figura centrale della critica letteraria, ex direttore della “Cines” e qui autore di una delle trenta raffinate note a commento dei ritratti (a lui toccò firmare la didascalia relativa a Vittorio De Sica).

Siamo di fronte a un inconsueto esempio di ékphrasis d’autore riferita al cinema e, si badi bene, non ai suoi registi già allora meritevoli di monografie da parte degli studiosi specializzati, bensì alle sue star più rappresentative, i popolarissimi beniamini dei cinerotocalchi che a quei tempi affollavano i frontespizi delle edicole. A scendere in campo fu un eterogeneo gruppo d’intellettuali e letterati, appartenenti tutti al gotha dell’intellighenzia allora in auge, disposti a un esercizio di succinta esegesi avendo come spunto le pose fotografiche. Più entusiasti e ispirati appaiono i letterati: Salvatore Quasimodo per Lea Padovani, Vincenzo Cardarelli per Silvana Pampanini, Vasco Pratolini per Silvana Mangano, Corrado Alvaro per Anna Magnani, Maria Bellonci per Gina Lollobrigida, Elio Vittorini per Ingrid Bergman, Carlo Levi per Alida Valli, Alfonso Gatto per Raf Vallone, Elsa Morante per Massimo Girotti, Alberto Savinio per Gino Cervi.

E’ noto che alcune di queste “grandi firme” si erano già ritrovate a frequentare il seducente e remunerativo mondo della celluloide, magari limitandosi a fornire sporadiche prestazioni per soggetti o sceneggiature (Cardarelli una sola volta, nel ’43, Pratolini per il Rossellini di Paisà e per qualche altro dimenticabile filmetto, Alvaro più spesso, ma soprattutto Vitaliano Brancati e Alberto Moravia, che qui chiosano rispettivamente le immagini di Umberto Spadaro e Lucia Bosè). Per molti di loro si trattò comunque di un’esperienza occasionale e irripetibile (ad eccezione di Quasimodo che invece ci prese gusto concedendo all’editore Lerici di pubblicare, nel 1965, una sua conversazione, introdotta da un breve saggio, con la diva della Dolce vita, Anita Ekberg).

Parliamo dunque di una pregevole strenna editoriale che sarebbe ingiusto considerare come un semplice pezzo d’epoca: si tratta invece di una raffinata iniziativa culturale che finisce per acquistare un originale valore nel contesto di quell’Italia del 1952 quando il cinema aveva ancora bisogno dell’aura letteraria come crisma di legittimazione culturale.

Era stato lo stesso Cecchi a confutare, sia pure con circostanziata moderazione, le tesi espresse otto anni prima da Cesare Brandi nell’ultima parte del suo celeberrimo Dialoghi di Elicona: Carmine o della pittura, datato 1945. In quella fase del proprio percorso teorico, il critico d’arte senese considerava il cinema come un’arte “mediata” e per questo inevitabilmente minore. La sua idea sulla natura oratoria (e non “poeticamente creativa”) dei film suscitò un correttivo intervento di Cecchi che, in un articolo del ‘46 apparso nel numero di giugno della rivista Mercurio, invitò ad accettare il “paradosso” di Brandi (“Non disprezziamo il nostro volgare”) al solo scopo di mettere in rilievo la specificità del “linguaggio cinematografico”, intendendone però “i limiti e la struttura” e suggerendo di “servircene per quello che è, e a non sbagliarlo con ciò ch’esso non è e non può essere”. Nonostante appaia prudente la dialettica dispiegata nei riguardi dell’autorevole collega, a Cecchi dovette sembrare inaccettabile l’assunto di Brandi secondo il quale un film non può (non deve) essere equiparato a un dipinto o a una scultura poichè “nelle varie arti nessuna accidentalità limita l’espressione”. Per di più, nell’enumerare le tante forme di “accidentalità” che la meccanica stessa del fare cinema esibisce, il Dialogo si concentra su quella costituita dalla presenza, inevitabilmente debordante, della corporalità attorale: “Una certa accentuazione della personalità fisica (soprattutto erotica) dell’attore cinematografico- scrive Brandi- finisce col sovrapporsi alla trama drammatica, creando un personaggio. (…) L’attore del film costituisce a poco a poco una specie di maschera di sé stesso, si tipizza su di sé. E ciò non può che aumentare la povertà formale del cinema, (…) farlo scendere sempre di più in combutta con l’esistenzialità sensuale dello spettatore”.

Al di là delle tesi espresse dalla maieutica di Brandi, tesi peraltro da lui stesso corrette qualche anno dopo in Teoria generale della critica ( Einaudi, Torino 1974), circolavano in Italia, già a partire dagli inizi degli anni Trenta, quelle meno ortodosse, e ancora non abbastanza diffuse, del cineasta- teorico Sergej M. Ejzenstein (che già definiva il cinema “lo stadio contemporaneo della pittura”) e, per ciò che concerne l’ambito della nostra critica, quelle dell’eretico di Lucca, Carlo Ludovico Ragghianti (il suo scritto Cinematografo rigoroso risale al 1933). L’ipòstasi ragghiantiana, diffusasi nel 1948 attraverso l’invenzione del critofilm (forma di ékphrasis applicata alla critica d’arte che utilizzava il film come strumento), contribuì nel tempo ad aprire la prospettiva non solo alla rivalutazione culturale del cinema in quanto arte figurativa, ma soprattutto a quella innovativa concezione del “saper vedere” che parallelamente avrebbe trovato uno sviluppo speculativo sia nel paradigma “esperienziale” dell’estetica di John Dewey sia nello sdoganamento teorico della aisthesis secondo il dettato di Hans Robert Jauss (ovvero di due fondamentali assiomi epistemologici che hanno contribuito a creare lo statuto  dell’estetica contemporanea).

Agli inizi degli anni Cinquanta, in Italia, la discussione intorno alla “natura non indifferente” del cinema acquistò, in ambito accademico, toni vivacissimi, diventando un terreno di scontro anche ideologico. La disputa non riguardava soltanto la questione dello “specifico cinematografico”: in ballo c’era la riformulazione dei principi stessi che determinano il rapporto tra l’esperienza della visione e la sua elaborazione intellettuale.

Nello stesso 1952 che vide l’uscita dell’elegante cartella dell’“Unitalia Film”, i primi numeri della Rivista del cinema italiano diretta dal critico e teorico Luigi Chiarini (che contribuì a diffondere i saggi sulla psicologia e il cinema di Rudolf Arnheim), ospitarono alcune roventi polemiche intorno all’estetica cinematografica (matrice crociana versus ortodossia marxista) animate dal giovane germanista Paolo Chiarini in opposizione all’estetologo Vittorio Stella, a partire da un’articolata recensione di Chiarini (apparsa nel numero 1 di settembre) che aveva per oggetto gli scritti di Ragghianti.

C’è da dire, però, che nel contesto del dibattito nostrano anche le posizioni culturalmente più disinibite esibivano marcate differenze rispetto alle punte di una elaborazione teorica altrove certamente più avanzata.

Se in Italia il cinema era diventato un tòpos privilegiato del dibattito delle idee, con lo stesso Ragghianti in prima linea a dettare le regole per un corretto metodo di lettura estetica “valido a comprendere il film nei suoi valori autentici”, in Francia i prestigiosi Cahiers du Cinéma esportavano i rivoluzionari paradigmi della nouvelle vague teoretica. Nel 1955 Ragghianti invitava a leggere un film come si legge un dipinto o una scultura (nel saggio Il verbo di Dreyer, poi compreso nella raccolta Arti della visione- I, Cinema, Einaudi, Torino 1975), mentre nei Cahiers (a partire dal numero 44 di febbraio), lungo un ciclo d’ interventi dal titolo Le celluloid et le mambre, il cineasta e critico Eric Rohmer si lamentava di quanto ancora lo studio di un film avesse per oggetto la forma: “ Il n’importe pas tant de montrer qu’elle parle un autre langage, mais dit autre chose, que nous n’avions pas, jusque-là, songé à exprimer”.

Oltre la forma, alla ricerca della possibile definizione di un elemento altro: la riflessione sulla natura del medium cinematografico esplorava nuovi confini, inscrivendosi di fatto nella griglia speculativa del confronto tra immagine e parola, dove si gioca l’infinita partita sia della rappresentazione dell’ irrapresentabile sia della sua ékphrasis.

Alla luce di queste derive teoriche, che erano il sale del confronto più originale sull’argomento in quel primo scorcio degli anni Cinquanta, il corpus iconotestuale edito da Bestetti svela tutta la propria eccentrica intenzionalità.

A contrastare l’allora influente anatema di Brandi, gli autori di questo esercizio di esegesi letteraria applicata al divismo si lasciarono coraggiosamente sedurre dall’elemento impuro di quella “esistenzialità sensuale” che, per un certo sentimento critico allora in voga, denunciava la natura sostanzialmente “volgare” del cinema, assumendo così il ruolo di garanti nobili nei riguardi di una colta operazione di marketing che aveva la necessità di ostentare connotati estetizzanti.

Volti del cinema italiano ospita in antiporta il verso conclusivo di una delle Rime di Michelangelo Buonarroti: “Chi mi difenderà dal tuo bel volto?”. Una citazione altisonante ma rivelatoria.

L’oggetto delle trenta stampe fotografiche, infatti, è proprio questo: primi e primissimi piani di star cinematografiche italiane, la geografia familiare e, al contempo, siderale delle loro espressioni ravvicinate e frontali, un débrayage enunciazionale che è segno forte della presenza influente e seduttiva di una industria culturale, quella cinematografica, ancora potente nell’Italia di quei primi (e per noi oggi primitivi) anni Cinquanta. Una industria che utilizzava le icone dei suoi idoli come marca pubblicitaria. Volti e non corpi: questo perché, come ha scritto una volta il filosofo Georg Simmel, “niente come il volto umano è più capace di convogliare una così grande varietà di forme e superfici in un’incondizionata unità di senso”.

Sono ritratti fotografici che accentuano la valenza statuaria dei loro soggetti, facendo propri i crismi del dettato hollywoodiano secondo il quale ogni divo è un objet d’art. I pregevoli artigiani che li hanno realizzati appartengono tutti a studi fotografici assai rinomati in quegli anni, ognuno dei quali espone un proprio stile, in alcuni casi colto e deciso: chiaroscuri espressionistici in Cantera, luminosità naturalistiche in Villoresi, sgranature e pastosità impressionistiche in Aldo, e così via. Rispetto ai ritratti di studio made in Hollywood, ognuno dei quali evidenzia sistematicamente uno “stile” o un “marchio” apposto da questa o da quella casa di produzione, la raccolta fotografica dell’ “Unitalia Film” conferma l’esistenza di un anomalo (ma altrettanto efficace) know-how industriale dell’italico sistema cinematografico che in quel periodo si affidava soprattutto all’estro e alla capacità di “fare immagine” dei suoi divi. Ogni attrice e ogni attore sceglieva il proprio fotografo di fiducia, selezionava gli scatti, delegava ai propri agenti la gestione del marketing riguardante ogni aspetto della professione. Emblematico è l’esempio del ritratto di Totò realizzato dallo Studio Cantera che non raffigura l’immagine della maschera astratta, dello scomposto e irresistibile “animale pazzo” ammirato da tutti in palcoscenico e sullo schermo, ma invece il principe Antonio De Curtis, i tratti affilati e l’espressione pensosa di quell’alter ego aristocratico che l’attore tenne sempre a promuovere come autentica immagine di se stesso.

Queste ékphrasis d’autore non denunciano comunque alcun riferimento rispetto allo stile delle fotografie di cui costituiscono il commento. E’probabile, anzi, che molti degli autorevoli redattori non conoscessero gli scatti dei rispettivi loro soggetti.

Alcuni scritti sviluppano sapientemente il tema del volto. Così esordisce Elsa Morante nella sua didascalia su Girotti: “Lo studio di un viso d’attore è un esercizio di scienza fantastica: perchè sul viso di un attore si può ritrovare il disegno, e perfino il nome, dei suoi personaggi”. Un viso “imbronciato, intrigante e pensoso” è quello di Girotti secondo la scrittrice, mentre per Quasimodo due sono i volti di Lea Padovani, uno di “fanciulla” e l’altro di “martire”. Milena Milani legge nel volto di Amedeo Nazzari “una bontà nativa, una schiettezza salutare e accogliente” e il poeta Gatto individua “gli occhi insieme innocenti e cattivi” di Raf Vallone. Da scrittore/pittore, Carlo Levi sviluppa un ritratto pieno di venature psicologiche del suo soggetto a partire da un folgorante primo piano: “Il viso di Alida Valli è quello (unico nella nostra cinematografia ricca di personaggi istintivi o idealizzati, popolari o esclusivamente sofisticati) di una persona ricca di vita interiore, tormentata, insoddisfatta, combattuta tra problemi intellettuali, bisognosa di risolvere le cose in sé prima che fuori di sé, di essere in pace con la coscienza e con il senso del peccato prima che con le cose e col peccato”.

In questa e in altre didascalie sorprende soprattutto il piglio da spettatore critico di chi le scrive e l’assenza di qualunque atteggiamento snobistico nei riguardi del cinema. Se Anna Banti definisce con competenza cinefila Delia Scala come “una Dietrich di estro popolare”, Savinio sa sottolineare con estrosa disinvoltura la “combinazione di calcolo e di febbre” dei “personaggi buoni, onesti, generosi e leali” di Cervi, dimostrando di conoscere gran parte dei film di quello che per lui è un naturale interprete della “pazzia emiliana”. Non mancano dichiarazioni di entusiasmo e ammirazione nei confronti delle più sensuali tra le dive. Cardarelli, nell’ostentare la propria estraneità nei riguardi del cinema, dichiara di essersi interessato solamente alla bellezza “di tipo rigoglioso, opulento e florido” di Silvana Pampanini: “Non l’ho mai vista in una vera interpretazione, ma posso dire che s’incontra con i miei gusti e con quelli del pubblico”. Di un’altra Silvana nazionale, della vamp di Riso amaro, Pratolini sottolinea l’eccezionalità di creatura “superba per la capacità tutta naturale di personificare con la sua sola presenza l’ideale della donna nel momento della sua più tenera e doviziosa fioritura”. Per poi descriverla in quel film con “le calze nere strappate, i pantaloncini stretti a mezza coscia, la maglia aderente a modellare il seno di Afrodite della risaia”: secondo l’autore di Diario sentimentale Silvana Mangano è l’emblema della “felicità domestica”. Come per Vittorini è simbolo assoluto di bellezza Ingrid Bergman, “di tutto ciò che nel mondo risulta bello, anche in senso morale, anche in senso intellettuale”.

Non solamente in queste notazioni, che appaiono come veri e propri esercizi di ammirazione, ma anche negli altri scritti di Volti del cinema italiano emerge fortemente l’intenzione, da parte di questi autori, di dare al cinema quel che è del cinema. Lo fanno tutti, nessuno escluso, prendendo partito a favore della sua “felice impurità” in quanto medium culturale (e questo nel contesto del cogente dibattito intorno alla sua forma), trasformandosi in persuasivi esegeti di quell’ “accentuazione fisica ed erotica” rappresentata dal corpo e dal volto dei divi e tantodeplorata da Brandi in sede critica. Lo fanno da letterati e intellettuali del proprio tempo, da mangiatori di film in combutta con i loro lettori/spettatori, da complici entusiasti della macchina cinema riconosciuta da loro come artigianato e come arte, che allora sapeva efficacemente visualizzare concretamente corpi e luoghi della realtà, per poi trasfigurarli alimentando sogni e utopie.

Per l’eletta schiera dei redattori di questa pubblicazione utile e coraggiosa si trattò di un adempimento necessario. E questo anche perché, come scrive Vittorini chiosando la sua nota su Ingrid, “insieme alla capacità di riconoscersi in immagini di quello che sono, gli uomini hanno anche la capacità di riconoscersi in immagini di quello che potrebbero essere “.

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