Ascesa e caduta del catanese che diventò il re del porno
Tipologia:  Articolo
Testata:  La Repubblica, ed. Palermo
Data/e:  20 aprile 2017
Autore:  Umberto Cantone
Articolo: 
Vallo a spiegare a un adolescente d’oggi, abituato al comodo autoerotismo interattivo, quante umiliazioni dovettero affrontare padri e nonni per alimentare il proprio immaginario sessuale. Come la richiesta fatta all’edicolante compiacente di occultare in un austero quotidiano una di quelle coloratissime riviste proibite che sapevano solleticare il testosterone.
Ai millennial non può che sembrare una favola la storia del catanese Saro Balsamo, classe 1930. Uno che prosperò a tal punto da poter essere considerato, all’apice di una quarantennale carriera semiclandestina, il Berlusconi dell’editoria “a luci rosse”.
A ripercorrerne l’ascesa e la caduta – come se fosse la parabola esemplare di una remota Italietta ipocritamente sessuofobica in cui prosperarono, confondendosi, strategie della tensione e dell’erezione – provvede l’esaustivo Porno di carta, edito da Iacobelli e scritto da Gianni Passavini, che da ex-cronista di “giudiziaria” arrivò a lavorare per quelle testate “sexy” che fecero la fortuna dell’antieroe al centro del suo godibile racconto.
Un racconto il cui teatrino iniziale è lo Strapaese culturalmente arretrato della metà degli anni Sessanta, dove la censura era l’arma strategica delle parrocchie dominanti, e dove ogni codice di “pudore comune” serviva a imporre il sentimento della morale maschilista supportata dalla pratica del “si fa ma non si dice”, come c’insegnarono sul grande schermo il Pasolini di Comizi d’amore e il grottesco dittico siculo di Germi.
Erano i tempi ideali per lo sviluppo del porno su scala industriale quando il nostro Balsamo, una volta trasferitosi in continente (tra Roma e Milano), si fece le ossa diventando l’impresario di Aiche Nanà,la spogliarellista turca che ispirò a Fellini la scena hot della Dolce vita, e come editore del “settimanale giovane” Big. Per darsi un tono, esibì il blasone di marchese di San Felice di Ischitella e, approfittando del cognome, si spacciò per erede di Cagliostro agli occhi dei finanziatori delle sue spericolate avventure imprenditoriali, però sognando per sé un futuro da Hugh Hefner, il patron di Playboy.
In tal senso la svolta arrivò nel dicembre del ’66 con l’uscita del settimanale “per soli uomini” Men, da lui fondato assieme alla moglie editrice Adelina Tattilo che, dopo il divorzio, gli soffiò la quota.
Il libro di Passavini ci ricorda che porno-redazioni come quella erano il porto franco di personaggi agli antipodi per provenienza e appartenenza ideologica (“c’era chi sognava di fare la rivoluzione e chi il golpe”), tutti però convertiti alla filosofia “balsamica”. Tutti impegnati a sfornare un prodotto dalle copertine promettenti e con dentro articoli liberatori supportati da foto di posizioni kamasutriche e di parziali nudi, soprattutto femminili, pubblicati con pecetta alle parti intime.
Un’autocensura durata fino a quando non riuscì a imporsi quel partito dei “tricofili” il cui lider maximo (al grido di “il pelo lo dobbiamo far vedere!”) fu il trapanese Francesco Cardella, editore di ABC e poi sodale di Balsamo prima della svolta “arancione” che lo portò a fondare la comunità terapeutica di Saman a fianco del compianto Mauro Rostagno, poi ucciso dalla mafia.
A cavallo tra i Sessanta e i Settanta, il mercato dei periodici sexy fruttò cifre impressionanti diventando misura di PIL. Per esempio, arrivò alla tiratura di 1 milione di copie (senza resa) ogni numero di Men che, nel 1970, pubblicò a puntate gli scabrosissimi diari e scatti della prorompente marchesa Casati, impallinata assieme al giovane amante dal marito cuckold che si suicidò davanti ai cadaveri.
Ma all’apoteosi delle vendite si contrappose l’ammosciante offensiva censoria della magistratura. Nel 1969, solamente nei sotterranei del Palazzo di Giustizia di Milano, giacevano ben 500 tonnellate di riviste sequestrate nel giro di due anni.
E così Balsamo, dopo una sequela di denunce, si fece sei giorni a San Vittore come responsabile della sua nuova creatura, il settimanale Le Ore, su cui contava per rifarsi un look da imprenditore radical chic. Perciò pagava assai bene l’eletta schiera dei suoi collaboratori, alcuni tanto doc quanto maudit come Milena Milani e Luciano Bianciardi, e altri esordienti, come la fotografa palermitana Letizia Battaglia, utilizzata per una serie di reportage sulla provincia italiana.
Tra i siciliani finiti nella redazione di via Fatebenefratelli va pure ricordato Osvaldo Guido Paguni, concittadino dell’editore, con un passato da giornalista Eiar e autore di radiodrammi a Radio Catania dove aveva diretto Turi Ferro, e in più scrittore di fotoromanzi che gli resero una fortuna poi dilapidata tutta alla roulette.
Che Le Ore abbia inizialmente mescolato voyeurismo e j’accuse, lo evidenzia la copertina del suo terzo numero, datata novembre 1970, col nudo di Barbara Bouchet sovrastato da un titolo che annuncia rivelazioni sul “delitto di Enrico Mattei”, uno scoop che poi si rivelò una specie di plagio delle inchieste firmate da Mauro De Mauro.
A quei cinici mestieranti, del resto, non importava che le fonti fossero dubbie quando addirittura non “deviate” (più tardi si arrivò a parlare d’intrecci criminogeni tra servizi segreti e “padrini della pornografia”), purché si attaccassero con disinvoltura i poteri costituiti (in primo luogo, la Dc e il Vaticano) e si prendesse posizione a favore di battaglie civili come il divorzio e l’aborto. Questa tendenza anarcoide della stampa porno engagé s’invertì quando presero a soffiare i venti sessantottini e la controinformazione finì nelle grinfie di partiti e movimenti.
I costumi del Belpaese si liberalizzavano, i tabù crollavano e a Le Ore, come agli altri periodici di Balsamo siglati International Press (ricordiamo OV, OS, Cronaca italiana e il fotoromanzo Supersex), non restò che assecondare la foia comune perseguendo la via dell’hard core pecoreccio, con strilli di copertina del tipo “Che gelida micina se la lasci riscaldare”, buoni ad annunciare pornoracconti-verità, fotoservizi senza più remore, e fiumi d’inserzioni erotiche per tutti i gusti ben pagate dai lettori più esibizionisti.
Mentre s’imponeva collettivamente l’edonistico “ritorno al privato”, il nostro editore si scopriva ricco come un pascià, con tanto di aereo privato, imprese fantasma, ostentazione d’influenze politiche (specialmente in casa Craxi), pittori grandi firme sulle pareti domestiche, ufficio arredato con sfere di Arnaldo Pomodoro, e party a base di caviale accompagnato da panini dove apparivano incise le sue iniziali.
A provocare il successivo, definitivo sfacelo finanziario di Balsamo furono qualche azzardato investimento di troppo sull’insorgente mercato dell’home video, assieme al traumatico declino del prodotto cartaceo iniziato negli anni Novanta e culminato alle soglie del nuovo millennio con la rivoluzione informatica che ha messo in rete anche l’industria del porno.
Il racconto di Passavini segue passo dopo passo l’emblematico tracollo che determinò la liquidazione di tutte le società del nostro (quelle vere e quelle inesistenti), arrivando a intitolare opportunamente il capitolo estremo “Una storia finita a puttane”. Per poi annotare, con una punta di amarezza, come quel Cagliostro dell’editoria erotica così ingegnosamente briccone, morto 75enne nel 2005, abbia vissuto il paradosso di essere diventato, a un certo punto, abbastanza ricco da potersi comprare il Corriere della sera ma di non averlo potuto fare perché il suo fu sempre il nome non spendibile di un inaffidabile pornografo.
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