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Rigore e tremore – Ricordando Franco Scaldati

Rigore e tremore – Ricordando Franco Scaldati

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Tipologia:  Articolo

Testata:  LinkSicilia

Data/e:  2 luglio 2013

Autore:  Umberto Cantone

Articolo: 

Entrava in scena nel buio dalla quinta destra per sedersi a fianco di un tavolo, sulla sinistra. Per tutto l’inizio del suo ultimo spettacolo, L’Angioletto vestito di giallo, Franco Scaldati rimaneva lì, come Krapp di Beckett, ad ascoltare la propria voce registrata con lo sguardo perso in platea. È questa l’ immagine che preferisco conservare di lui. Non quella del suo volto sofferente che mi guarda da amico per l’ultima volta sul letto d’ospedale e mi fa appannare di lacrime. È quella sagoma muta in scena, invece, che ora sembra ingigantirsi nella memoria. È la singolarità di una presenza irripetibile arrivata alla sua replica finale.

Fu Peter Brook a dire, riferendosi a Grotowski, che il campo di azione dell’attore è se stesso. Se questo vale per un attore, figuriamoci se non vale per Scaldati, che oltre a essere attore è stato anche poeta e drammaturgo. Una volta entrato nel nostro immaginario, Franco il Sarto si è trasformato in un vero e proprio luogo del teatro, invitante e pericoloso. A tutti noi, che lo abbiamo frequentato da esploratori o da turisti, non resta ormai che ripercorrerlo per tradurne lo spirito quanto più dignitosamente possibile.

Quella piccola sala che ospitava la messinscena dell’Angioletto è la stessa del primo ricordo che a lui mi lega in scena, da giovanissimo: il Ridotto del Teatro Biondo, nel 1980, per un frammento del Pozzo dei pazzi, inscritto, per volontà di Pietro Carriglio, nell’In forma di rosa che fu un mélange dei suoi primi testi, dove il Sarto ha voluto quella volta che interpretassi il suo Totò il folle, “con le mosche e la sua gallina”,

Sul palco, come fossero un corpo solo,  Scaldati e il magnifico Gaspare Cucinella, impareggiabili Benedetto e Aspanu, si mangiavano tutti gli altri attori, consumando se stessi fino allo sfinimento.

Per quello spettacolo, con brusca pazienza, Franco m’insegnò, una volta e per tutte, che recitare significa fare di ogni sussurro un urlo. M’insegnò che quell’offrirsi sulla scena , replica dopo replica, è un rituale faticoso e rigenerante da consumare con la testa e con le viscere. Che c’è tanta rabbia ma anche tanta gentilezza nel teatro fatto dai veri teatranti. Quella sua lezione cercai di portamela appresso come una preziosa bussola per il  mio mestiere futuro, da attore e da regista.

Scaldati diventò presto, per me, come uno di quei leoni di pietra che ornano i transetti di certe chiese romaniche, guardiani di templi cultuali e di alberi sacri, minacciosi simboli di resurrezione.

Un vitale punto di riferimento, un crogiuolo e un frantoio, una specie di oracolo disincantato, profondamente umano anche perché dotato d’irresistibile ironia spesso rovesciata in sarcasmo (il marchio della sua felicissima, radicale sicilianità).

Recitare al suo fianco era per chiunque una esperienza esaltante e frustrante insieme, come suonare in una jam session con Charlie Parker in persona.

Una esperienza che, già dalla prima lettura, t’imponeva di ascoltarti , di blandire il tuo limite, di abbandonarti al ritmo senza mai perdere il senso della misura. Quella misura stringente e liberatoria che fonda i testi di Franco.

Partiture frastagliate e sottili, robustamente annodate in vaporose risonanze o in rime accuminate, dove ogni pausa è un segno da interpretare.

Punti di sospensione che si atteggiano a respiri ora troncati e ora dilatati, una ritmica in continua torsione che non smette mai di alludere a un rovescio del segno, e che proprio per questo pretende sempre un’espressione piena. Nella scrittura di Franco a dominare su tutto è la logica allusiva e sapienziale del frammento.

Dai suoi attori, il leone Scaldati esigeva rigore e tremore: quell’intensità rappresa e pronta all’introspezione, quel diminuendo sfumato in arroventate cesure che la parola richiede quando si fa teatro, quel grado d’improvvisazione propria degli acrobati che si piegano all’estro ricomponendo all’istante, con studiata naturalezza, la memoria dei propri allenamenti.

Fare teatro è come fare all’amore, ci diceva: una faccenda di mistiche, chimiche consonanze tra corpo e anima (quando l’anima c’è e non si smarrisce strada facendo).

In scena, Franco era esemplare: indossava con feroce tenerezza i propri versi fino a quando questi non aderivano a lui come una seconda pelle.

Per incarnarli con la sua voce morbida e ruvida, quel leone usava la consapevole nonchalance che hanno solo i poeti quando leggono se stessi. Cantava inseguendo l’ideale fraseggio della sua scrittura.

Il suo canto era una phoné malinconica che lo faceva vibrare tutto. Il suo urlo evocava non solo furore ma pietas: “A ‘addina è mia e pò jttari sangu ru cuori c’‘on t’a rugnu. E’ mia…è mia…è mia”- cantava così nel Pozzo il suo Benedetto, brandendo una violenza che si scomponeva in tenerezza struggente.

Avvoltolati, stanchi, ripiegati, sbalzati dentro se stessi; e poi, a un tratto, per una capriola umorale, indotti a tirare fuori le viscere, il cuore e tutti i sensi e sentimenti: i personaggi del teatro di Scaldati sono figure prigioniere di un girone infernale condannate a un incessante detour esistenziale.

Sono l’espressione ancestrale e implacabilmente prosciugata della condizione stessa del sottoproletariato di Palermo come di tutti i Sud del mondo, la sua mitologia.

Franco ha trasformato il loro dialetto in lingua (una lingua purificatrice ma non pacificatrice).

Un mondo riconsegnato alla lettera poetica, fonemi come note, fraseggi aspri e materici, un linguaggio finalmente liberato dalla gabbia della volgarità piccolo borghese, dalla melassa bozzettistica che ancora oggi fa breccia nel midcult nostro contemporaneo.

Per lui, un ponte dorato era Pasolini e due ponticelli solidissimi e limitrofi erano Beckett e Céline.

Quel Céline del Viaggio al termine  “dans l’Hiver et dans la Nuit” di cui parlammo, ottenebrandoci reciprocamente, qualche anno fa in un pomeriggio di prima estate nel suo penultimo studiolo ingombrato e incavato di Corso Olivuzza dove troneggiava in bilico la sua Olivetti 33.

Della letteratura (come del teatro) gli interessava soprattutto la musica, e per questo venerava i grandi umoristi e le scritture etiliche ed esoteriche dei maledetti.  I suoi prediletti erano Shakespeare e Dostoevskij, che Franco corteggiava in continuazione e con i quali duellava da par suo quando decideva di tradurne le più sigillate profondità.

Gli piaceva pure orecchiare la musica del cinema: specialmente quella dell’immagine depurata e abbacinante che buca l’occhio, il perturbante candore di Dreyer e Bresson, pura energia cinetica che travalica lo schermo per mangiare la testa di ogni spettatore disponibile a farsi azzannare.

Prediligeva lo stile in ogni cosa, non faceva altro che ammantarsi di stile, ripudiando ogni snobismo o moda “artistica” che gli trascorreva davanti.

Il leone poeta era avido di fissità, si lasciava ammaliare da essa, facendola poi rimbalzare nell’ alchimia del suo teatro, utilizzandola come appuntito oggetto di seduzione. Anche per questo si era legato all’altro Franco di Palermo, il cineasta Maresco, che l’ha amato e riplasmato con furibonda passione, riconoscendone il magistero: un’affinità speciale li ha incollati, una comune radice civile e culturale, l’aspirazione sulfurea a ciò che di sublime c’è nell’ombrato, lo stesso sguardo ieratico sulle contraddizioni perverse dell’irredimibile anamorfosi panormita, la stessa emozione (non solo intellettuale) nei riguardi della dinamica eversiva che sovrintende ogni rappresentazione dell’immutabile.

Dal canto mio, confesso di non aver mai potuto fare a meno della guida di Scaldati. Mi piaceva incontrarlo non solamente per lavoro. Insieme parlavamo di libri (me ne regalava sempre qualcuno, con generosità) e di quel teatro che lui vedeva in giro e che spesso lo deludeva.

Parlavamo di argomenti disparati e casuali (ultimamente a fianco del suo sodale, giobbico Melino e del nostro complice Roberto Giambrone) e mi lasciavo scuotere dalla sua delicata ma puntuta intelligenza, sviluppata in rare asserzioni incisive e spietatamente concrete.

Dopo le non poche tournée (ricordo quella di Buela quando Franco divenne preda dell’ammirazione di Rosa Balistreri, altra lavica e insostituibile presenza scenica), i camerini comuni, le solidali imprecazioni rabbiose e le caustiche sentenze dietro le quinte, l’odorarsi reciproco sul palco e fuori, i progetti lanciati e poi rinviati ad libitum (un’unica mia regia per lui, uno studio su una porzione del fluviale suo Libro notturno dal Macbeth shakespeariano nel dicembre del 2002 al Teatro Santa Cecilia), dopo questo e altro, una solidale occasione teatrale è stata, a parte un Don Giovanni Tenorio, la sua partecipazione a un mio allestimento al Teatro Biondo della Stanza di Harold Pinter.

Gli ho chiesto di essere Riley, il “negro cieco” che, irrompendo sul finale, invita perentoriamente la protagonista Rose a tornare dal padre. Franco trasformò quell’ invito in un’implorazione funerea e la sua presenza accecata in minaccia fatale. Fu più pinteriano di tanti interpreti canonici di Pinter.

E si mutò, per l’ennesima volta, in un leone ammonitorio e sibillino, ripiegato in se stesso ma pronto a divorare le sue prede: uno statuario hic et nunc attorale che propagava una potente e pericolosa carica di elettricità. Come l’attore fluttuante di cui si legge nel celebre testo di Yoshi Oida, conduttore di quella “recitazione vuota” capace d’indicare, attraverso la semplice concentrazione, l’energia di una presenza in costante stato di metamorfosi. Uomo, animale, divinità. Spirito e materia. Forte come la vita, forte come la morte: Scaldati sì che sapeva esserci sulla scena!

Giorno dopo giorno si risvegliava invasato, la sua quiete era la sua tempesta. E ogni giorno annunciava una nuova prova, come un esorcismo. Niente sembrava scalfirlo, nemmeno la grande amarezza (che confessava con pudore) di non avere ricevuto la giusta ricompensa di un proprio teatro dagli amministratori di quella città di cui ha voluto dipingere gli incerti contorni, la sua Palermo che gli scompariva attorno e che lui si ostinava a immaginare vertiginosamente indelebile.

Per fortuna, mi sono ritrovato testimone di alcuni suoi momenti di felicità nei mesi rigidi degli avventurosi spettacoli della sua rinnovata compagnia nel giardino del Centro sociale di padre Scordato, il buon rifugio, dagli anni novanta in poi, dove Franco ha potuto mettere in scena il suo incantevole bestiario teatrale. Ricordo una replica in una notte di pioggia di Gennaio, la brace accesa, le crepe fiorite di simulacri di rovine e di rovine vere, le vocine caste e maliziose delle attrici, e guaiti e miagolii e trilli stupiti degli esecutori in un crescendo dodecafonico: un mostruoso, divino concertato zoomorfico come un sogno dentro un sogno di Bosch.

Ricordare…basta.

Caro Franco, ora che la trasmigrazione si è fatta necessaria, io che ti ho vissuto tante volte, nel tempo breve e nel tempo lungo del tremore, come ctonio spettro e incarnazione di rigore, voglio continuare a percepirti compatto e solido come il marmo o la pietra, come uno dei leoni pagani davanti alla chiesa di Beaulieu, pronto al ruggito, disposto a una resurrezione da Racconto d’inverno.

So che ti ritroverò spesso nel corpo dei tuoi testi trapuntati , nelle coloriture affilate delle intonazioni dei tanti tuoi allievi a cui hai fatto da padre, e persino nella mimesi dei tuoi troppi epigoni. Ti ritroverò rileggendoti e, come tutti, cercherò di decifrarti con scrupolo.

Mi mancherà molto la flagranza delle tue risposte non date, il gioco sadiano dei tuoi enigmi, il taglio scettico di certi tuoi sguardi, il tuo indicarmi con saggezza le soglie delle porte aperte o chiuse. Mi consolerò ancora indagando la tua immagine incisa in quel buio rilucente “vestito di giallo” .

In quanto alla tua voce, basta un foglio a vivificarne la traccia. Il foglio di una tua partitura (l’ho ritrovato di recente) che una volta hai eseguito con scrupolo, prestando pure il tuo volto antico, per un mio cortissimo filmetto di qualche anno fa: una specie di rosario d’antologia palatina sul tema delle minne (del sacro femminino): “minne sergentine/ minne cavernine/ minne organine/ minne candeline/ minne sartine/ minne ciliegine/ minne fragoline/ minne perline/ minne coralline/ minne nebbioline”… E così via, inanellando infinite qualità.

Questo ipnotico ordito che, con perizia di sarto (il tuo primo mestiere), hai cucito per l’occasione, e poi hai cantato utilizzando i tuoi sapienti armonici arrochiti, sarà per me l’umore sonoro della tua grazia scontrosa, l’olio distillato dal tuo infrangibile frantoio.

Da non dimenticare. Mai.

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