Don Chisciotte della Mancia (El ingenioso hidalgo Don Quijote de la Mancha) di Miguel Cervantes – Prima edizione Einaudi 1957
Autore/i:  Miguel de Cervantes
Tipologia:  Romanzo
Editore:  Giulio Einaudi, Collana "I Millenni", n.35
Origine:  Torino
Anno:  1957 (15 giugno)
Edizione:  Prima Einaudi
Pagine:  LV (1) 1185 (3)
Dimensioni:  cm. 22 x 14
Caratteristiche:  Legatura in tela lucida editoriale con illustrazione in nero di Honoré Daumier ai piatti, custodia rigida con illustrazione a colori dello stesso autore. All'interno, illustrazione a colori all'antiporta e 12 illustrazioni a colori fuori testo
Note: 
Prima edizione Einaudi, nella collana « I Millenni», del Don Chisciotte della Mancia con la traduzione, l’introduzione e le note dell’ispanista e poeta Vittorio Bodini.
Questa versione mantiene inalterato lo stile della prosa spagnola secentesca e comprende per la prima volta, in una traduzione italiana, le parti del romanzo scritte in versi.
A seguire l’introduzione al testo di Bodini, una nota di Giulio Bollati spiega le ragioni che hanno indotto i curatori a scegliere i dipinti e disegni di Honoré Daumier per illustrare questa edizione.
I soggetti di queste illustrazioni dal taglio modernamente romantico (ricavate da opere di Daumier custodite al Louvre di Parigi, al Metropolitan Museum di New York, al Museum of Art di Boston, all’Art Gallery di Glasgow, alla Nue Pinakothek di Monaco, o appartenenti a collezioni private) riguardano non solo don Chisciotte e Sancio, ma espongono anche altri quattro soggetti del pittore (I ladri e l’asino, L’uomo dalla corda a nodi, Ritorno dal mercato e Il mugnaio, suo figlio e l’asino) che risultano organicamente connessi alla figuratività donchisciottesca.
Dalla INTRODUZIONE di Vittorio Bodini
« Che cosa ha dire del Don Chisciotte chi per tre anni ha vissuto ininterrottamente sulle sue pagine, calato nella sua strana avventura fino a scordarsi di sé e a far materia della propria vita le buffe ansie, le collere, ma anche la delicatezza, la generosità, la speranza di elevazione? Qual’è la prospettiva di un traduttore del Chisciotte, che ne ha pesato parola per parola, non lesinando ore pur di stabilire l’esatta intonazione di un sentimento o l’intensità di un’azione attraverso l’aggettivo o il verbo giusto? (…) Ci troviamo di fronte al libro più discusso, al testo su cui ogni età si sente in obbligo di proporre e sperimentare la sua problematica, ma la prospettiva del traduttore è quella dell’albero che impedisce di vedere la foresta. Sia dunque, e cerchiamo, per quel che si può, di seguire la prospettiva dell’albero, con tutte le umiliazioni che essa comporta. La prima delle quali ci proviene dal fascino dell’interpretazione romantica che ha fatto di don Chisciotte il cavaliere dell’ideale perennemente in lotta con la realtà, al cui materialismo egli oppone la sua meravigliosa illusione di generosità e di purezza. E qui la parte più ingrata toccherebbe a Sancio, che si vede assegnato il compito di rappresentarne l’altro polo dialettico, la quotidiana realtà, l’inerzia terrestre che finirà col trionfare della più alta follia, del più puro dei sogni. Come evitare che il dualismo fra queste due astratte e opposte figurazioni trasformi il corso del romanzo in un conflitto romantico destinato all’epilogo, anch’esso romantico e di un’amara malinconia, di don Chisciotte che sconfessa sul letto di morte la propria follia, dando ragione a Sancio, alla realtà? Eppure tale conflitto non esiste nell’opera, e questo è il meno che si possa dire, se non vogliamo addirittura accettare le conclusioni di un critico moderno che, tra la folla di reazioni psicologiche di cui è ricchissimo il romanzo, esclude che si possa trovarne una sola che porti a un qualsivoglia sviluppo tragico. (…)
Non è facile respingere questa maniera di leggere il Chisciotte, e non perché essa trovi reale riscontro nelle sue pagine, che anzi gli resta completamente estranea: un romanzo della critica, o dei lettori, accanto al romanzo vero. E il primo a non riconoscerlo sarebbe sicuramente Cervantes. Ma pur non riconoscendolo, non potrebbe non avvertirne l’intenso potere di suggestione, e non rimanerne incantato. Ma questo capiterà sempre col don Chisciotte: libro i cui personaggi sono sfuggiti sin dai loro inizi all’autore, e vanno quindi incontro a tutte le possibilità di interpretazione che il passaggio dei secoli accumulerà su di essi. Ma il traduttore che ha visto, per una più rallentata conversazione col testo, come attraverso le pagine i due personaggi siano cresciuti, (…) non può non sentirsi dalla parte di quei personaggi e del loro autore contro una loro astratta figurazione che di quanto li fa eroi d’un dramma universale, di tanto poi li irrigidisce e depaupera di quell’intensa determinazione che essi conquistano di avventura in avventura, di pensiero in pensiero, fino a collaborare integrandosi nell’interpretazione e nella valutazione del mondo. Si tratta insomma di difendere don Chisciotte dal donchisciottismo: e più che don Chisciotte, che da una interpretazione donchisciottesca meno avrebbe di perdere, si tratta di salvar Sancio, la sua festosa umanità, il sottile progresso del suo pensiero, la nostra simpatia verso la fresca e maliziosa infanzia della sua verità interiore (…).
Questo parteggiare per Sancio, ai fini di un’interpretazione sintetica dell’opera è indubbiamente un errore; eppure se conta qualcosa l’esperienza di un traduttore, l’amicizia col testo nata da quel suo paziente e fedele artigianato, dovremo dire che se il parlato di don Chisciotte è l’espressione d’un personaggio colto e complesso, che si muove entro prestabilite sintassi, maneggiandole disinvoltamente e mantenendo su un piano di estrema eleganza il suo gioco fra dignità e follia: si tratta d’altra parte di un personaggio sintatticamente mediato, nei cui discorsi è presente la duplice preoccupazione di esprimere la propria complessità e di farlo nel modo più impeccabile. Ma la sintassi o le sintassi gli son presenti, e non è la parola che lo salverà; dove lo vediamo illimpidirsi e risolversi è nell’azione, ed è questa la sua vera e sola liberazione umana e poetica. Se dovessimo indicare quale sia a parer nostro la più alta vetta fantastica raggiunta da Cervantes nel romanzo, indichiremmo forse le capriole di don Chisciotte nella Sierra Morena: in quel puro atto, con cui si pone di colpo al di là delle parole, la sua assurdità brilla d’una luce sintetica e rivelatrice. (…)
Lasciando da parte tutta la serie di considerazioni a cui porterebbe l’ironia cervantina, ciò che qui ci interessa vedere è come don Chisciotte sia interamente affascinato dall’azione. Si accetti o no la formula di ispirazione unamuniana per cui la follia di don Chisciotte sarebbe il frutto squallido e disperato della sua maturità interiore, è innegabile che la sua idolatria dell’azione derivi dal carattere intellettuale della sua formazione: causa apertamente denunziata dall’autore nell’esame che fa delle sue letture e conseguente rogo, ormai tardivo, dei suoi libri. Un’altra causa è stata modernamente indicata nella condizione sociale di don Chisciotte, come reazione cioè alla forzata inattività dell’anziano gentiluomo campagnuolo. Ma si tratta di finte cause, posteriori evidentemente al personaggio che vogliono spiegare. (…) Il primo contrasto si avverte in sede strettamente letteraria fra un personaggio già psicologicamente costruito e un personaggio improvvisato, o addirittura inatteso, uscito quasi da sé dalle pagine: al punto da avere talvolta la sensazione che chi dialoga con Sancio, chi escogita mille maniere per sfruttare la sua naturale loquacità e provocare le sue risposte e le sue uscite, non sia don Chisciotte ma Cervantes, di cui avvertiamo la presenza invisibile per tutta la Prima parte, mentre nella Seconda si affaccia in noi ripetutamente il sospetto di scorgere la sua fisionomia dietro il travestimento di una gaia e intelligente signora, la Duchessa, con il quale Sancio avrà delle conversazioni essenziali e la prenderà tanto in simpatia da confidarle il suo umanissimo segreto di scudiero fedele. (…)
(…) Il rigido schema romantico che oppone don Chisciotte a Sancio, l’ideale alla realtà, il dover essere all’essere, non ha alcuna ragione. Il contrasto che fra i due personaggi si avverte non è opposizione, non conflitto, come non vi può essere conflitto nel fatto che l’uno sia allampanato e secco e l’altro corto e grassoccio; ma risiede nella diversa qualità della loro esperienza umana e nel senso contrario che ha la loro parabola: l’eroe intellettuale che evade nell’azione, la rustica creatura che sconfina nei campi del pensiero. La follia di don Chisciotte è il ponte che congiunge i due personaggi, che nella loro vita anteriore avevano potuto vivere per tanti anni senza conoscersi se non quanto era inevitabile per il fatto di vivere nel medesimo borgo. Che un’amicizia così famosa avrebbe potuto unire le loro vite e i loro nomi in eterno, è cosa che saranno stati ben lontani dal presagire (…).
Costa fatica pensare che Cervantes si sia tenuto come un asso nella manica un personaggio come Sancio; eppure nei primi capitoli Sancio non compare, non c’è di lui né l’attesa né il minimo presentimento. Certo, un autore che avesse costruito con cura questo romanzo avrebbe ben potuto differire sapientemente la sua entrata in scena; ma allora quel romanzo non sarebbe stato il Chisciotte, opera la cui sorprendente improvvisazione, episodio per episodio, battuta per battuta, pare dovuta alla scommessa di un genio, con due personaggi così complessi e tuttavia così liberi da non sapere fino alla fine dove sono diretti, dove li porterà il loro confuso itinerario e soprattuto il gioco dei loro rapporti. Tanta intrepidezza fantastica non è diversa dal coraggio e dalla intrepidezza dell’animo: e questo è un punto che collega il romanzo alla romanzesca biografia dell’autore. (…)
Quando la critica schematizza i rapporti tra Cervantes e il suo capolavoro, ponendosi la domanda se esista o no un’equazione Cervantes-don Chisciotte, e rispondendo nella maggior parte dei casi negativamente, noi sentiamo falsato il problema che avrebbe invece dovuto sorgere dal rapporto vita-letteratura: fra il romanzo vissuto da don Miguel e quello che egli ha scritto, e quali sono i sentieri segreti che portano dall’uno all’altro sino al sorriso da cui nasce in un carcere quel ridicolo ossuto personaggio nella cui smania per l’azione faremmo male a non riconoscere la straordinaria energia vitale, la sete d’esperienze che guidarono il giovane don Miguel per punti nevralgici della cultura (e della crisi) mediterranea, come un favoloso inviato speciale di se stesso.
Sì, un sorriso è l’origine del Chisciotte, e al tempo stesso, ciò che gli impedirà di voltarsi in tragedia: è il meraviglioso orgoglio mediterraneo che da una vita destinata a una parabola esemplare e naufragata invece fra i più cavillosi e disonoranti esiti scova il tesoro dell’esperienza e la sete inesausta di saperne di più e meglio sul mondo: ciò che l’autore chiamerà con un termine confidenziale e senza pretese la sua curiosidad. L’ idea di rappresentare il mondo partendo dall’eccentrica prospettiva della follia è forse un mezzo per salvaguardarsi da un malinconico autobiografismo (…).
Ma si dirà: che bisogno aveva Cervantes di far gravitare attorno a due personaggi anziché a uno solo il romanzo, giocando per tal modo su due distinti piani dell’anima? A questa domanda assai meno ingenua di quel che potrebbe parere, non c’è una risposta precisa, come non ce n’è per chi si chiedesse per quale ragione il Bernini qualche decina d’anni più tardi abbia preferito alla pianta centrale quella policentrica. Era solo la moda che sostituiva, per puro piacere di novità, l’ellisse al circolo, o non piuttosto una nuova visione del mondo che sostituiva l’antica: la vecchia anima rinascimentale «a pianta centrale», che non riusciva a esprimere più, e tanto meno a governare, i nuovi livelli della coscienza barocca, le fughe sempre più fitte e ostinate verso la fantasia, verso il sogno o l’ignoto, o in direzione opposta, verso una realtà colta nei suoi elementi dinamici e fatta oggetto delle più curiose esplorazioni e scoperte? Finiva l’umanesimo, e cominciava l’umanità. Un’umanità a cui non fanno paura le proprie contraddizioni, e non si cura di comporle in un ordine artificiale. (…)
Dobbiamo respingere le sirene dell’universalità, e cercare invece di collocare quest’opera straordinaria nella vita del suo autore, e questa nel proprio secolo: finora la critica ha fatto per lo più il contrario. Siamo in un’età di crisi e di violenza; un’età che rassomiglia stranamente alla nostra. Dall’inflazione o dal crollo dei vecchi ideali sta venendo fuori una realtà fervida e confusa, non facilmente riconoscibile, che inquieta le vite degli uomini tentandole alle soluzioni più estreme, o costringendo le coscienze più vigili alle contraddizioni, a lasciar convivere nella propria anima le più opposte ipotesi, mentre lo spirito delle masse (e non soltanto di queste), per sfuggire a questo turbamento (e al contrasto che formano, gomito a gomito, splendore e miseria), si dà in braccio a evasioni fantastiche, l’oppio cavalleresco. Si è fatto un gran discutere su che cosa Cervantes abbia o non abbia voluto fare rispetto alla cavalleria errante. La cavalleria errante non è un fenomeno reale ai tempi di Cervantes: questo è chiaro; e dunque se Cervantes avesse scritto il suo libro per combatterla, avrebbe combattuto dei mulini a vento assai più ridicoli che non quelli del suo personaggio; e nemmeno poteva aver scritto un libro di protesta contro la letteratura cavalleresca, poiché un libro di polemica letteraria rimane un fatto letterario. Tutte le grandi discussioni che si fanno sulle intenzioni di Cervantes sono incredibilmente sfocate e assurde. Cervantes non poteva non sapere come le mutate condizioni storiche e sociali avevano destituito d’ogni fondamento e d’ogni senso l’istituto cavalleresco; la sua lotta non è contro il passato, ma contro un mostro attuale, il veleno in cui s’è trasformata nell’anima dei suoi contemporanei quella memoria di un’età trascorsa, diventando una funzione negativa del presente. Anzi, non è il ricordo della cavalleria ad aver creato quel veleno, ma è questo che si avvale di quello. Questo veleno è l’evasione dalla realtà, la diminuzione di valore accordata alla verità della vita, per comprarsi con quel falso risparmio la droga dell’evasione. (…)
Noi viviamo esattamente nella situazione di impasse dei tempi di Cervantes. I fantasmi delle nostre folle, o della nostra anima di folla, sono i pennacchi di fumo degli indiani Sioux, gli assalti alle carovane, i saloons, i filoni d’oro. Lo stesso amaro gusto di sottrarci alle chiuse immagini della vita reale, di salvare in qualche punto fuori di essa la nostra umana avventura. È un angoscioso disagio che si serve di ridicoli paradisi artificiali, ma non perciò è meno grave e profondo. Esso, a guardarlo bene, a osservare bene il mondo di fantasmi a cui s’abbandona, è un desiderio di condizioni nuove d’esistenza, in cui l’individuo non sia già interamente bloccato e immobilizzato nel gioco meccanico dei rapporti sociali, in cui vi sia la speranza di esiti individuali, di farsi creatori e non vittime di preesistenti gerarchie, dove infine le nozioni di bene e di male non siano così capillarmente confuse e conviventi, e sia possibile trovar l’oro e contemplare i verdi pascoli. Nel sogno d’un cavaliere errante che arriva alla corte d’un re, e viene accolto da lui con tutti gli onori, supera prove, combatte, e la principessa se ne innamora, Cervantes centra liricamente il sogno glorioso e miserabile dell’uomo comune del suo tempo. (…) È il male del secolo ciò che la sua analisi incalza: il disincanto, il discredito del mondo dell’esperienza e della storia, per sostituirgli un’assurda macchina fatta di figure e vicende capricciose e bugiarde. Il male, non è nella preferenza che il cuore accorda o può accordare alla favola, ma nella disperata svalutazione della realtà a cui quella preferenza viene spinta. (…)
Abbiamo esagerato fino all’assurdo tale confronto perché riuscisse ben chiaro l’errore d’impostazione in cui ci si pone dando retta al falso scopo indicato da Cervantes anziché alla portata e all’intensità della sua denunzia. Ma nonostante i dubbi e le cautele di cui avremmo voluto circondare questa nostra prospettiva di lettura, un’inaspettata verificazione le giunge da un problema che ci si era ormai assuefatti a considerare insolubile: quello cioè dei rapporti tra l’Ariosto e Cervantes. Partendo infatti da quel punto morto che è la letteratura cavalleresca si trova che tanto l’uno che l’altro ne hanno tratto la materia del proprio libro. Tale materia è in entrambi ridicolizzata; e con tutto ciò, se ci sono due autori e due libri in cui sentiamo un’opposta visione della vita, sono proprio l’Orlando furioso e il Don Chisciotte. Ma da quella prospettiva in cui s’è posta, la critica non riesce a scorger altre differenze se non meccaniche, come, per esempio, che l’Ariosto abbia scritto in versi e Cervantes in prosa; o che nell’uno prevalga la materia del ciclo carolingio e nell’altro quella del ciclo bretone. Ma nell’Orlando, purissimo divertimento, non vi è l’ombra di quella denunzia e di quell’alternativa che il Don Chisciotte pone al suo tempo. E che Cervantes abbia inteso e rispetti l’alto valore estetico, ma quello solo, del capolavoro italiano può forse arguirsi in maniera indiretta dalle parole del curato al barbiere durante il famoso esame della biblioteca dell’hidalgo; parlando dei personaggi d’uno di quei libri di cavalleria, il curato uscirà in questa frase: «in verità, mi limiterò a condannarli soltanto all’esilio perpetuo, se non altro perché rientrano nella trama del famoso Matteo Boiardo, donde tessé a sua volta la sua tela il poeta cristiano Ludovico Ariosto, a cui, se lo trovo qui a parlare altra lingua che la sua, non serberò alcun rispetto; ma se parla nel suo idioma, lo tratterò con ogni riguardo». Il motivo per cui non potevano aver nulla in comune all’infuori della materia l’Orlando e il Chisciotte sta proprio nel fatto che essi significano nel modo più evidente gli ideali di dure secoli che offrono fra molte affinità contrasti radicali e irriducibili. Dalla crisi dell’uomo rinascimentale, di cui l’Ariosto rappresenta il raffinato e soddisfatto gioco, nascono profonde inquietudini, scontentezze e aneliti di nuovo, d’ignoto; l’equilibrio morale e sociale è minacciato, i delicati contorni del vivere in una piena adesione del’anima ai giorni son rotti in più punti, e per tali brecce si slancia il cuore avido d’esperienze, in non importa che direzione, purché sia verso mete e soluzioni estreme, dove sia possibile toccare il vertice o il fondo, in un’oscura e febbrile ansia d’esemplarità, non importa quale. »
( Vittorio Bodini, dalla Introduzione a questa edizione, Torino, Einaudi, 15 giugno 1957 )
Sinossi: 
Don Chisciotte della Mancia ( El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha) è la più importante opera letteraria dello scrittore spagnolo Miguel de Cervantes Saavedra, e una delle più rappresentative della letteratura mondiale. Vi si incontrano, bizzarramente mescolati, sia elementi del genere picaresco, sia motivi del romanzo epico-cavalleresco, nello stile del Tirante el Blanco e del Amadìs de Gaula.
Cervantes, che si era arruolato seguendo la flotta cristiana alla volta di Lepanto, di ritorno da quell’estenuante battaglia, fu ricoverato presso l’Ospedale Maggiore della città di Messina nella quale si riuniva il vertice di Don Giovanni d’Austria. E fu proprio a Messina, in quel momento così importante della sua esistenza, durante la convalescenza, che egli iniziò a concepire il suo capolavoro, il Don Chisciotte della Mancia. Il pretesto narrativo ideato dall’autore investe la figura dello storico Cide Hamete Benengeli, di cui Cervantes dichiara di aver ritrovato e tradotto il manoscritto in arabo nel quale sono raccontate le vicende di don Chisciotte.
Pubblicato in due volumi a distanza di dieci anni l’uno dall’altro (1605 e 1615), il Don Quijote è l’opera letteraria principale del «Siglo de Oro» ed è il più celebrato romanzo della letteratura spagnola.
TRAMA
Il libro si struttura in due parti (1600-1615). Il protagonista della vicenda – un cinquantenne forte di corporatura, asciutto di corpo e di viso – è un povero nobiluomo (un hidalgo) spagnolo, Alonso Quijano, che vive in un paese della Mancia ed è morbosamente appassionato di romanzi cavallereschi. Le letture lo condizionano a tal punto da trascinarlo in un mondo fantastico, nel quale si convince di essere chiamato a diventare un cavaliere errante. Decide così di partire per poter accrescere, con nobili azioni volte a difendere i deboli e riparare i torti, la propria fama e quella di tutto il paese.
Alonso diventa così il cavaliere don Chisciotte della Mancia e inizia a girare per le regioni della Spagna. Nella sua folle impresa, don Chisciotte trascina con sé un contadino del posto, Sancio Panza, al quale promette il governo di un’isola a patto che egli diventi il suo scudiero.
Come tutti i cavalieri erranti, don Chisciotte sente la necessità di dedicare a una dama le sue imprese. Lo fa scegliendo Aldonza Lorenzo, una contadina sua vicina, da lui trasfigurata in una nobile dama e ribattezzata Dulcinea del Toboso.
Purtroppo per don Chisciotte, la Spagna del suo tempo non è quella della cavalleria e nemmeno quella dei romanzi picareschi, e le occasioni d’imprese memorabili sono diventate assai rare. La sua visionaria ostinazione lo spinge però a vivere la realtà in con altri occhi. Inizierà quindi a scambiare i mulini a vento con giganti dalle braccia rotanti, i burattini con demoni, le greggi di pecore con eserciti nemici. Proverà sempre a combattere questi avversari immaginari, ritrovandosi sempre sconfitto e suscitando l’ilarità di coloro che assistono alle sue folli gesta. Sancio Panza, dal canto suo, sarà in alcuni casi la controparte razionale del visionario don Chisciotte, mentre in altri frangenti si farà coinvolgere dalle imprese e dalle utopistiche teorie del padrone.
LA PRIMA PARTE DEL ROMANZO è preceduta da un PROLOGO nel quale l’autore si scusa per lo stile semplice e per la narrazione esile e “priva di citazioni”. Segue il PRIMO CAPITOLO che tratta delle condizioni, dell’indole e delle abitudini del nobiluomo Don Alonso Quijano, un cinquantenne “forte di corporatura e asciutto di corpo e di viso”. Con lui vivono, in un paesino della Mancia, una governante sulla quarantina, una nipote di venti anni e un domestico. Inaspettatamente, la sua maniacale passione per la letteratura cavalleresca si trasforma ad un tratto in una forma di delirio. Nelle ore libere, egli ne discute con il barbiere del paese, mastro Nicolás, e con il dotto curato laureatosi a Siguenza. Alonso decide quindi di farsi cavaliere errante e di andarsene armato a cavallo in giro per il mondo, facendo piazza pulita di tutte le ingiustizie, le prepotenze e i soprusi. Immagina come proprio futuro premio la corona di Imperatore di Trebisonda, e così inizia a mettere in atto il suo progetto.
Come prima cosa ripulisce e rimette in sesto alcune armi che erano appartenute ai suoi avi; poi si reca dal suo ronzino che gli sembra, anche se malconcio, persino superiore al leggendario Bucefalo di Alessandro Magno. Poiché al ronzino manca un nome, don Alonso decide di chiamarlo “Ronzinante”, “primo fra tutti i ronzini del mondo”. In seguito pensa di nobilitare anche il proprio nome, e decide di farsi chiamare “don Chisciotte della Mancia”, ponendo in evidenza il suo lignaggio e in onore della sua terra natale. Ma si rende conto che manca ancora qualcosa (“si persuase che non gli mancava altro se non una dama di cui dichiararsi innamorato”).
La donna dei sogni viene identificata in una certa Aldonza Lorenzo, una giovane contadina di un piccolo paese limitrofo, immediatamente ribattezzata col nome di “Dulcinea del Toboso”.
Fatti tutti questi preparativi e preoccupato per i danni che può procurare al mondo tardando a partire, don Chisciotte si mette presto in viaggio. Durante il suo peregrinare si chiede come fare a battersi per nobili cause se nessuno lo ha mai nominato cavaliere. Il problema è risolto a fine giornata quando egli, giunto in un “nobile castello” ( che in realtà è un’umile osteria) sottopone la questione al “castellano” (ovvero all’oste). Questi, resosi conto della follia del suo cliente, finge di essere un grande signore e, con l’aiuto di due donzelle, lo nomina cavaliere. All’alba, don Chisciotte lascia l’osteria ritemprato e soddisfatto.
Arrivato nel bosco, egli libera il garzone di un contadino, che da questi era stato legato e picchiato, ma appena gira le spalle il padrone riprende a seviziare il garzone. Quando incontra un gruppo di mercanti di Toledo che si recano a comprare delle partite di seta a Murcia, don Chisciotte, certo che questi siano cavalieri erranti, grida loro di fermarsi e di dire che in tutto il mondo nessuna donna è più bella dell’Imperatrice della Castiglia, ovvero della sua Dulcinea del Toboso. I mercanti lo prendono in giro e ne nasce una rissa in cui don Chisciotte, caduto malamente da cavallo, viene bastonato da uno stalliere.
Un contadino del suo paese, di ritorno dal mulino con il carro, lo trova e lo riporta a casa dove la nipote e la governante erano in pensiero per la sua assenza. Il curato del paese e il barbiere, fattagli una visita, si rendono conto del suo stato e decidono di dare fuoco ai suoi “pericolosi” e “menzogneri” romanzi di cavalleria, salvando però, con profondo senso critico, quelli che considerano più belli. Ma don Chisciotte non sembra rinsavire e, dopo quindici giorni, convince un contadino del paese, di buon carattere ma non troppo perspicace, ad andare con lui in veste di scudiero, promettendogli di nominarlo governatore se mai avessero conquistato un’isola. Il contadino, di nome Sancio Panza, accetta e, salito sul suo asinello “come un patriarca”, parte con don Chisciotte, che si rimette in sella al suo ronzino, per le vie del mondo.
I due sono da poco in cammino quando si vedono all’orizzonte trenta o quaranta mulini a vento, che subito don Chisciotte scambia per giganti con i quali vuole subito ingaggiare una battaglia. Malgrado gli ammonimenti di Sancio, egli si lancia a galoppo contro il primo mulino a vento, cadendo a terra e rimanendo piuttosto malconcio.
Don Chisciotte e Sancio Panza riprendono la strada e incontrano una comitiva di frati dell’ordine di San Benedetto, un cocchio con dentro una dama diretta a Siviglia, con quattro cavalieri di scorta e due mulattieri. Don Chisciotte mette in fuga i frati scambiandoli per degli incantatori e litiga con il biscaglino della dama credendo che ella sia una principessa rapita da liberare. In un successivo scontro con dei mulattieri sia don Chisciotte che Sancio vengono duramente bastonati.
Entrambi si rifugiano, assai malmessi, in una osteria di campagna, che don Chisciotte nuovamente scambia per un castello, dove, a causa della serva Maritornes, di un mulattiere geloso di lei e di una serie di equivoci notturni, i due vengono ancora una volta bastonati.
In seguito, i due incontrano un gregge di pecore e di montoni, che a don Chisciotte pare un vasto esercito nemico: vedendolo menare colpi agli animali con la lancia in resta, i pastori gli gridano di fermarsi. Lui procede nel suo folle intento, e quelli cominciano “a salutargli l’udito con pietre grosse come il pugno”. Rischiando di essere lapidato, don Chisciotte se la cava perdendo due denti: da questo momento egli verrà nominato come “il Cavaliere dalla Trista Figura”
In seguito, capita a don Chisciotte e a Sancio di assistere a un funerale notturno. Il cavaliere, credendo che si tratti del trafugamento di un cavaliere morto, decide di far giustizia assalendo uno dei vestiti a lutto. Gli astanti disarmati si spaventano e scappano. Questa volta Sancio mostra di lodare il valore del suo padrone.
Le avventure di don Chisciotte proseguono con l’assalto a un barbiere che si reca a prestare i suoi servizi e al quale don Chisciotte toglie la bacinella di rame che scambia per l’elmo di Mambrino. Poi s’impegna a liberare alcuni galeotti attaccando le guardie che li scortano.
Infine, assalito dalle nostalgie d’amore, don Chisciotte decide di ritirarsi a vita di penitenza tra i boschi della Sierra Morena in omaggio alla sua Dulcinea (ad imitazione di Amadigi, uno dei suoi eroi preferiti, quando fu disdegnato da Oriana). Dopo essersi scontrato con il povero Cardenio, folle per l’amore di Lucinda, a causa di un futile contrasto cavalleresco, Sancio gli chiede di tornarsene a casa, cosa che don Chisciotte gli concede, affidandogli anche una lettera d’amore per la sua signora Dulcinea del Toboso, lettera che viene subito smarrita dall’incauto messaggero. Sancio incontra il barbiere e il curato all’osteria di Maritornes ed insieme decidono di riportare il cavaliere impazzito a casa. Lungo il cammino per la sierra Morena essi incontrano la bella Dorotea e, facendola passare agli occhi di don Chisciotte per la principessa Micomicona bisognosa d’aiuto, lo convincono a lasciare la sierra e a tornare a casa. Dopo altre avventure che si concludono a suon di bastonate, il barbiere e Sancio devono legare don Chisciotte per condurlo all’osteria, che diventa il castello incantato del racconto. Qui vengono narrate diverse novelle, che compongono gli ultimi capitoli della prima parte, e qui si verificano una serie di felici sviluppi: Dorotea ritrova il suo Fernando, Cardenio Lucinda, la pastora Marcella Crisostomo, il parroco legge la novella del Curioso fuori luogo (El curioso impertinente) ambientata a Firenze, un capraio narra la storia di Vicente e Leandra, e, infine, uno spagnolo catturato nella battaglia di Lepanto racconta la vicenda del “Prigioniero” (El cautivo). Solo don Chisciotte continua ad essere causa di tumulti, anche se tutti lo giustificano credendolo pazzo. Il curato e il barbiere lo convincono di essere vittima di un sortilegio e riescono a condurlo a casa a bordo di un carro di buoi. La prima parte del romanzo termina con quattro sonetti in memoria del valoroso don Chisciotte, di Dulcinea, di Ronzinante e di Sancio, seguiti da due epitaffi conclusivi, a dimostrazione che Cervantes non pensava allora di pubblicare la seconda parte del Don Chisciotte.
Curato dalla vecchia governante e dalla nipote, don Chisciotte mostra di essere riuscito ad equilibrare pazzia e saggezza, tanto che il curato e il barbiere non possono fare a meno di ammettere, spesso, la nobiltà del suo punto di vista. Ma presto egli apprende da Sancio e dal baccelliere Sanson Carrasco, suo compaesano, che il libro delle sue gesta è già stato letto da tutti, e che tutti ne ridono, visto poi che circola un altro libro sulle sue avventure carico di menzogne (quello di Avellaneda, appunto). Il baccelliere è appena tornato da Barcellona ed è un entusiasta lettore delle avventure di don Chisciotte, mentre Sancio, dal canto suo, ha preso gusto della vita errante, e con la prospettiva di diventare governatore dell’isola promessagli dal suo signore, consente ad accompagnarlo in un nuovo viaggio.
La coppia percorre la via per il Toboso perché don Chisciotte desidera, prima di partire per altre avventure, avere la benedizione della sua Dulcinea. Ma è molto difficile scovare questa luminosa bellezza, simbolo di tutte le perfezioni, perché il paese è tutto vicoli e casette e non si scorge nemmeno un castello o una torre. Don Chisciotte è convinto che la sua dama sia rimasta vittima di un incantesimo diabolico da esorcizzare al più presto.
Sancio, che ha ormai capito quali sono i capovolgimenti operati dalla fantasia nel cervello di don Chisciotte, consiglia al padrone di ritirarsi nel bosco per evitare guai con gli abitanti, e s’impegna a trovare da solo la bellissima recandosi in paese. Al ritorno dice al padrone che tra non molto vedrà avanzare la principessa vestita in gran pompa seguita da due damigelle. Si tratta di tre contadine davanti alle quali Sancio s’inginocchia chiamandole rispettivamente Regina, Principessa e Duchessa.
Don Chisciotte, con gli occhi stralunati, si mette accanto a Sancio e rimane senza parlare mentre nel suo animo si era già dato una spiegazione per quello che credeva un incantesimo. Quando le tre contadine se ne vanno egli esprime il suo pensiero a Sancio: “Vedi quanto male mi vogliono gli incantatori, poiché hanno voluto privarmi della gioia che avrebbe potuto darmi il vedere nella sua vera forma la mia signora”.
Il povero don Chisciotte si trova in questo stato d’animo quando si imbatte in una compagnia di comici con i quali non riesce a mettersi d’accordo e viene messo in fuga da un fitto lancio di sassi.
Più avanti, egli incontra il “Cavaliere degli Specchi” che lo sfida a duello con la condizione che chi dovesse risultare perdente, accetterà di sottostare alle condizioni del vincitore. Con un colpo di fortuna, don Chisciotte vince il duello. Questo cavaliere non è altro che uno studente di Salamanca, un certo Sansone Carrasco amico di don Chisciotte, che ricorre a quel trucco nella speranza di vincere il duello per ricondurlo al villaggio, ma non riesce nel suo intento.
Testimone di questa ultima impresa è don Diego de Miranda, “Cavaliere dal Verde Gabbano”, che ammira don Chisciotte per la sua assennatezza, almeno fino a quando non lo vede scagliarsi contro i leoni. Mentre i due sono ospiti di don Diego, si celebra il matrimonio della bella Chilteria e del ricco Camaccio. Dopo le nozze, don Chisciotte si fa calare, legato ad una fune, nella grotta di Montesino che si trova nel mezzo della Mancia e quando ne esce racconta di aver incontrato gli antichi paladini e la sua adorata Dulcinea. Naturalmente, si tratta solo di un sogno.
Sulla strada per Saragozza, don Chisciotte e Sancio proseguono le loro avventure: fuggono davanti a un contadino arrabbiato per i ragli di Sancio, mentre don Chisciotte si lancia contro dei burattini durante una rappresentazione. Un giorno incontrano un duca e una duchessa che, avendo letto la prima parte delle avventure del Fantastico Nobiluomo don Chisciotte della Mancia, desiderano conoscere il cavaliere e ospitarlo, con Sancio, nel loro castello. I due accettano, e il duca e la duchessa si divertono a prenderli in giro, insieme alle loro damigelle e ai loro servi. Tra le elaboratissime beffe organizzate alle spalle dei due malcapitati, vi è quella d’inscenare in un bosco una mascherata con maghi, demoni, donzelle e altri personaggi. In seguito, viene imbastito il dramma della contessa Trifaldi e delle sue dodici pulzelle che hanno il volto barbuto, per un incantesimo, del mago Malabruno.
Don Chisciotte deve affrontare il mago nel suo paese cavalcando Clavilegno, un cavallo alato che in realtà è fatto di legno ed è carico di mortaretti, cosicché quando don Chisciotte e Sancio lo cavalcano bendati, il duca dà fuoco alle polveri e i due, dopo aver fatto un gran salto per aria, cadono rovinosamente sull’erba.
Ma la beffa più grande è la nomina di Sancio a governatore di Barattaria, il paese che gli fanno credere possa essere l’isola dei suoi sogni. Sancio viene alloggiato in un lussuoso palazzo, ma poi gli fanno soffrire la fame col pretesto di salvaguardare la sua salute, mentre don Chisciotte assiste il suo governo con lettere piene di saggi e pacati consigli. Il mandato governativo di Sancio termina con una solenne bastonatura, inflittagli dai cortigiani che si fanno passare per nemici invasori.
Nel frattempo, don Chisciotte al castello dei duchi s’intrattiene con le dame che si fingono tutte innamorate di lui, a cominciare da dalla spigliata Altisidora, che si mostra la più abile nel sostenere la burla.
Con le pive nel sacco, don Chisciotte e Sancio lasciano il castello alla volta di Barcellona e, lungo la strada, incontrano i banditi della banda di Rocco Guinart. Ma Rocco si mostra molto più magnanimo dei duchi, lasciando presto liberi i due, e anzi raccomandandoli ai suoi amici di Barcellona. Giunti nella città, don Chisciotte viene sfidato dal “Cavaliere della Bianca Luna”, che altri non è se non l’irriducibile baccelliere Sansone Carrasco. Questi, col pretesto di una contesa sul primato di bellezza delle rispettive dame, costringe don Chisciotte ad ammettere che la sua donna è più bella di Dulcinea, obbligandolo pure a giurare di tornarsene a casa.
Don Chisciotte invoca la morte, riaffermando la priorità assoluta della bellezza di Dulcinea, ma si sottomette al patto della contesa. Così sconfitto, torna al paese dove viene colto da una improvvisa febbre che lo tiene a letto per sei giorni. Malgrado la visita degli amici il cavaliere si sente molto triste e al termine di un sonno di sei ore, si sveglia gridando che stava per morire e ringraziando Dio per aver riacquistato il senno. Decide di abbandonare il nome di don Chisciotte per riprendere quello di Alonso Quijano, detto il Buono per i suoi retti costumi. Rinnega le sue antiche imprese, e poi saluta gli inseparabili amici Sancio, Carrasco, il curato e il barbiere. In seguito, chiede di confessarsi e di fare testamento. Dopo qualche giorno, tra i pianti degli amici e soprattutto di Sancio, don Chisciotte muore.
Per la sua sepoltura vengono composti molti epitaffi tra i quali quello di Sansone Carrasco: Giace qui l’hidalgo forte/che i più forti superò,/e che pure nella morte/la sua vita trionfò./Fu del mondo, ad ogni tratto,/lo spavento e la paura;/fu per lui la gran ventura/morir savio e viver matto.
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