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Compie dieci anni “Belluscone”, capolavoro ustionante della povera Italia, “la Repubblica-Palermo”/ domenica 8 settembre 2024

Compie dieci anni “Belluscone”, capolavoro ustionante della povera Italia, “la Repubblica-Palermo”/ domenica 8 settembre 2024

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Tipologia:  Articolo

Testata:  la Repubblica / Palermo

Data/e:  domenica 8 settembre 2024

Autore:  Umberto Cantone

Articolo: 

Dieci anni. Appena dieci anni sono passati dal suo successo al Festival di Venezia, dagli applausi entusiasti all’anteprima e dalle attestazioni di stima che culminarono nel premio speciale alla sezione Orizzonti (anche se rimane insoluto il mistero sul perché Alberto Barbera, allora già direttore, non lo volle in concorso).

Eppure oggi, a Franco Maresco, come del resto al sottoscritto, quel capolavoro ustionante che rimane “Belluscone-una storia siciliana” sembra che appartenga a un’altra era geologica.

E non si tratta, ovviamente, dell’impareggiabile modo in cui il film – diventato nel frattempo un cult frequentatissimo rimasticato da non pochi imitatori – rappresenta l’imperituro gnommero di Palermo, capitale dell’infernale follia che Maresco ha saputo raccontarci, con leggerezza, come pesantissimo dato di fatto. No, quello che appare sorpassato è soprattutto l’indigeno paesaggio umano squadernato da quel teorema così premonitorio sulla povera Palermo/Italia a venire.

Smorfie, scene mute, balbettamenti, contorsioni lessicali e corporali: ogni antopologica espressione di incontinenza risaltava ancora come affermazione di diversità nella fisiognomica antica di quei personaggi.

All’interno della sfasciata ma icastica suburbia (col quartiere Brancaccio come maelstrom) riuscivano ancora a convivere la generazione “anni ‘50” dell’ex barbiere impresario Ciccio Mira, caposcuola gigionesco di una paramafiosità ostentata come crisma identitario, accanto a quella “Z” dei disarmanti freaks del neomelodico cresciuti col mito letale dei primi talent show. E dunque, un’altra era geologica.

Anche perché ormai, nell’attuale Palermo “for profit”, così smaliziata e turisticizzata, è diventato quasi impossibile trovare ancora uno che risponda alla domanda: “Scusi, lei è contro la mafia?” con un verace “Ma picchì, a mafia è contro ri mia?” (è uno dei tanti estemporanei botta e risposta del film).

In quel remoto 2014 eravamo ancora all’alba dell’alienante fenomeno dei “social media”, né avevamo traversato la tempesta perfetta del biennio pandemico da cui siamo usciti tutti peggiori di prima perché più tecno-lobomotizzati.

Il film di Maresco fu pure capace di radiografare la regressione della “classe morta” dei politici nostrani di cui Berlusconi è stato il trionfante spartiacque populista. Ma come appaiono oggi teneramente primitive quelle differite Finivest a reti unificate che segnarono la discesa in campo del “lider maximo” a confronto con l’andazzo comunicativo degli squallidi caporioni dell’attuale palude sovranista, ora che, da destra a sinistra, il mediatico si è fatto “immediatico” tramite l’omologante digital marketing via Instagram o X o Tik Tok che sia.

“Belluscone”, però, non è solo uno sbeffeggiante j’accuse contro la furia dei tempi. Non è solo l’avvelenata dichiarazione di spregio nei riguardi del cupio dissolvi (recentemente sancita da postuma intitolazione di scalo aeroportuale) che ha risucchiato i sospetti di contiguità mafiosa sull’incipit imprenditoriale del camaleontico cummenda premier.

“Belluscone” è anche la storia della dolorosa sparizione del suo regista. Una sparizione che, in questi anni, da metafora si è fatta realtà. Dopo una sequela di progetti abortiti o incompleti, vi posso assicurare (da complice coinvolto fino al collo) che sarà il “Film fatto per Bene”, grottesca elegia carmelobeniana sulla “fine di tutto” (ancora in lavorazione), a chiarire che per Maresco sparire significa oggi più che mai sparare (a zero, alla maniera di Guy Debord).

Per cominciare, sparare da indignato sul sistema del cinema in Italia, su quelle regole ministeriali da tempo adeguate all’obiettivo di falcidiare soprattutto chi si ostina – da nemico della contentezza – a fare film indipendenti e magari indigesti. Una meccanica infame che Maresco ha sperimentato sulla propria pelle, anche dopo il disastroso episodio della censura al suo “Totò che visse due volte”.

“Belluscone” ci mise tre anni a essere completato. Partì alla grande nel 2011 con un botto di ciak  per una sequela di interviste provocatorie a emblemi del berlusconismo politico e culturale (Calogero Mannino mandò il regista a quel paese dopo le prime domande, Sgarbi lo accusò rabbiosamente di averlo travisato, la maggior parte protestò di non essersi ritrovata nel final cut). Seguì un lungo ripensamento che mise in discussione l’originale struttura da film-inchiesta contrappuntata da siparietti modello “Cinico Tv”.

A Maresco mancava il grimaldello panormita, e quel grimaldello si chiamava Ciccio Mira, il quale si portò appresso l’epopea dei neomelodici e pure Erik, l’aedo del memorabile inno lumpen “Vorrei conoscere Berlusconi”.

Il film era bell’e fatto, anche se per completarlo si arrivò alla primavera 2014, giusto in tempo per Venezia. Alle ovazioni, ai premi (ci fu pure un David di Donatello) e alle recensioni tutte a pollice su (anche a destra: Buttafuoco in visibilio, Maria Rosa Mancuso del “Foglio” entusiasta) non corrispose però una conseguente strategia di distribuzione.

Occhipinti della Lucky Red optò per il minimo dovuto: solo 30 copie diffuse su tutto il territorio nazionale, condannando così “Belluscone” a un rapido oblio preceduto da modesti incassi. Una specie di occultamento di mercato, che, per Maresco, non fu né il primo né l’ultimo.

Il film finì pure nella lista nera dei forzaitalioti, e qualcuno di loro ne invocò il sequestro. Si dice che a dare l’alt a iniziative giudiziarie fu proprio il Berlusca in persona. Forse, chissà, a consigliarlo di soprassedere fu Marcello Dell’Utri, che, non ancora galeotto, aveva accettato di farsi intervistare nel film, ammaliato da quel cagliostro del concittadino Maresco, che lo volle in trono sul palcoscenico del Teatro Savio. Un teatro i cui proprietari salesiani, non appena seppero chi era l’intervistato, adeguarono la richiesta di affitto alla troupe da mille a centocinquanta euro, Iva compresa (fu forse la memoria dei fasti della Bacigalupo?).

Per l’occasione, Dell’Utri adottò il sarcasmo dell’erudito, toppando però sulla citazione di Montale, che non scrisse mai -come lui afferma- una poesia chiamata “L’imprevisto”, e per giunta con quel finale sbagliato. Le risposte del senatore a Maresco furono autentiche perle di reticenza, tracotanza e sprezzante elusività. Furono il frutto dell’antica scuola retorica del politichese. Un insegnamento attualissimo, praticato con voluttà all’odierna corte di Giorgia dagli scoloriti epigoni del Cavaliere e dei suoi seguaci. E così, almeno sotto questo aspetto, l’era geologica che “Belluscone” iconicizzò con tanta efficacia ci risulta ancora maledettamente vicina.