A sua immagine (e nostra) – Il corpo esposto di Pier Paolo Pasolini, in Catalogo “Sicilia Queer FilmFest 2022”
Tipologia:  Articolo
Data/e:  maggio 2022
Autore:  Umberto Cantone
Articolo: 
Cento anni dalla nascita e quasi cinquanta dall’affaire ancora irrisolto del suo assassinio.
Oggi più che mai confrontarsi con il valore e la persistente influenza dell’impresa artistica e intellettuale di Pier Paolo Pasolini significa mettere in rilievo la cruciale questione del corpo nelle sue opere. A patto di connettere tale questione a quella del suo corpo e delle innumerevoli rappresentazioni in vita e post mortem.
E questo perché abbiamo imparato che la maggior parte delle analisi che riguardano la dimensione etica e la qualità estetica dei suoi libri e dei suoi film, finiscono inevitabilmente per restituirci Pasolini come exemplum barthesiano di scrittore dotato di “un corpo chiaramente carnale” pubblicamente esposto.
Un corpo che è in grado di connotare, è stato più volte dimostrato, il corpus di una delle più straordinarie esperienze autoriali del nostro Novecento.
A prenderne atto non sono solamente le più sofisticate ricognizioni e riletture della sua opera, ma anche l’odierno midcult che ha assorbito il mito Pasolini elevandolo a simbolo di ciò che più ci manca, ossia la figura forte del poeta intellettuale che è in grado d’incarnare con autobiografica coerenza la metafora del “corpo gettato nella lotta”, per di più facendone un marchio esistenziale e culturale di diversità.
E anche se tale processo non è riuscito a neutralizzare il fascino elettivo, “alto”di questo mito, ha senz’altro contribuito a trasformare la figura e l’esperienza di Pasolini nel simulacro sociologico di una idolatria utile soprattutto a far lievitare il paradigma arte/vita.
Un paradigma a cui va attribuito il merito di aver assicurato la lunga tenuta di questo mito, resistendo alla furia dei liquidi tempi presenti.
In più, osserviamo con sempre maggiore sgomento quanto l’imago pasoliniana si presti a venire utilizzata ogni qualvolta s’intenda conferire un accettabile spessore all’imago di coloro che il frantumato immaginario nostro contemporaneo propone come i “miti d’oggi”.
Pasolini è ancora un brand assai efficace per quel logoro assioma “l’arte come vita uccide ancora” che tanto insospettì a tempo debito Arbasino, quando mise ironicamente a confronto la tragica fine dell’amico/rivale Pier Paolo con quelle di Winckelmann, Byron, Puskin.
La recente occasione del centenario, poi, non ha mancato di fornire ampie verifiche sulla solidità dell’exemplum Pasolini, una delle quali ha visto la sua icona finire nella galleria delle copertine cult della nuova serie della rivista Linus diretta da Elisabetta Sgarbi, a precedere le altre dedicate, nei numeri successivi, ai Beatles e, significativamente, all’ex-attore e attuale presidente dell’Ucraina in guerra Zelens’kyj, un altro che si è ritrovato mediaticamente esposto mentre gettava il proprio corpo sul campo.
Per ciò che concerne il corpo di Pasolini da utilizzare come grimaldello di una teoria che fornisce organicità alla sua fluviale e metodica (ma pure disordinata e discontinua) produzione artistica, uno dei rischi più fuorvianti che corrono biografi e critici è quello di privilegiare come chiave esegetica il traumatico evento del suo omicidio (una fine da martire la cui versione ufficiale è fin da subito apparsa artatamente inverosimile proprio perché tipicamente pasoliniana).
Ad avvertirci di questo rischio ha provveduto colui che del poeta bolognese è attualmente il maggiore esperto in Italia (da curatore dell’opera omnia nei Meridiani di Mondadori), lo scrittore Walter Siti, di cui lo scorso aprile Rizzoli ha pubblicato “Quindici riprese”, un’antologia che comprende cinquant’anni di suoi studi pasoliniani.
Siti condivide con Italo Calvino la tesi che attribuisce alla “prontezza del corpo” la qualità primaria che fece di Pasolini uno dei più convincenti “descrittori di battaglie” della nostra letteratura.
La joie de vivre pasoliniana ci viene presentata, negli scritti di Siti, intrisa di arroganza adolescenziale e predatoria voracità sessuale. Ma ci viene anche spiegato che essa fu invalidata da una «postura psichica che ne portava all’eccesso i presupposti».
Una tendenza all’automitografia condizionata da una persistente percezione di spossessamento e di scissione che alimentò, soprattutto nell’estrema fase della vita, la sua adesione a un angoscioso sentimento di vuoto.
Uno dei modi più convincenti per interpretare tale “desolante condizione di diseredato” è quella di connetterla al rapporto conflittuale che Pasolini ebbe con la propria omosessualità, negli anni giovanili elaborata come una vera e propria minaccia.
Emblematica è, in tal senso, la sua lettera a Silvana Mauri del febbraio 1950 dove confessò un travaglio che lo aveva portato «a soffrire il soffribile» rispetto al proprio orientamento sessuale avvertito come estraneo, addirittura «nemico».
Sembra dunque che in Pasolini sia stata la problematica accettazione di sé ad avere motivato un irrefrenabile, e altrettanto problematico, desiderio di farsi accettare.
Un desiderio che non gli impedì di assumere quelle posizioni polemicamente eretiche e intellettualmente provocatorie che ne fecero, nel campo della cultura, il principale capro espiatorio del potere politico e giudiziario nell’Italietta democristiana e criptofascista dagli anni ’50 ai ‘70, attraverso una persecuzione in vita la cui cronaca è tutta nei 33 processi subiti.
Forse è in conseguenza di tale persecuzione (a cui egli comunque seppe reagire con combattivo orgoglio), o semplicemente per esprimere pubblicamente la profonda mitezza del proprio carattere, che Pasolini intraprese, alimentandolo sempre febbrilmente ma con pazienza, un fittissimo dialogo con la comunità intellettuale e la società civile, con i suoi lettori e spettatori.
Un impegno che seppe accendere per qualche tempo il suo utopismo pedagogico, una vocazione rivolta sia ai suoi ragazzi (prede e complici), sia a quel popolo che egli amò idealizzare come élite antiborghese prima di costatarne l’antropologica, e per lui ributtante, corruzione e omologazione.
Fu poi un’altra traumatica constatazione, quella che da giovane lo condusse a riconoscere il proprio deficit di eccellenza come poeta (quando si definì un «Rimbaud senza genio»), ad avere attizzato la sua vena di sperimentatore (lui che detestava l’avanguardia contemporanea) e inventore di inedite ibridazioni e forme nuove in letteratura, come nel cinema e nel teatro.
Guai però a valutare singolarmente ognuno di questi objets pasoliniani.
Sostenendo che la vera opera di Pasolini è l’insieme delle sue opere, dai cui interstizi emerge l’identità dell’autore, Siti individua nel personaggio che dice “io” l’elemento più potentemente evocativo, l’impronta più persistente del suo stile.
Un personaggio che volle sempre stare alla ribalta ma solo per proporsi come esempio di coraggiosa impudicizia intellettuale, e che gestì con eccezionale virtuosismo il proprio lucido abbandonarsi alle «visioni musicali» della realtà del proprio tempo.
Tra le originali caratteristiche della magnifica retorica di Pasolini la più rilevante consiste nell’essere riuscito a proporsi (e a tramandarsi) come uno degli ultimi artisti intellettuali dotati di un carismatico côté mistico, invischiato marxianamente nella realtà ma pure capace di rilevarne visionariamente, e a volte profeticamente, il senso in più.
Un coraggiosissimo scambio simbolico, il suo, che attivò utilizzando la scandalosa novità del proprio corpo e della propria voce, da offrire al suo pubblico come sintomo di una diversità (prima di tutto sessuale, ma non solo) divisiva e sovversiva, a segnare gli anni in cui si ritrovò a operare, quelli cruciali che videro svolgersi prima l’illusione e poi la disillusione dell’ideologia rivoluzionaria.
Uno dei suoi atteggiamenti filosofici più incisivi consistette – ha scritto una volta Giuseppe Perrella nella rivista Fiction (n. 2 del 1977) – nel provocare «il balzo dialettico incessante dal corpo al pensiero e dal pensiero al corpo», sempre mantenendo la propria azione artistica e intellettuale dentro la contraddizione (profondamentepop) del rapporto tra arte e merce. E questo singolare, innovativo processo fu attuato non mancando mai di ridefinire, all’interno della meccanica di ogni operazione cinematografica, lo spazio sociale in cui si produce lo sguardo dello spettatore e il consumo stesso di cinema: il cinema-cinema che a quel tempo si consumava in sala e che riusciva ancora a essere medium nodale.
Questo caratterizzò filosoficamente l’azione di quel Pasolini che da scrittore e intellettuale decise di votarsi al mestiere di cineasta.
Fu l’adesione a un linguaggio e ai suoi dispositivi che gli permise di formulare una nuova teoria di realismo attivando «una via d’uscita dall’impasse ideologica» attraverso una valorizzazione (che non temette di assecondare un ritorno allo spiritualismo) dei corpi-lavoro dei propri attori, insieme al loro farsi dimensione attiva e al tempo stesso nascosta del pensiero.
«Il corpo dell’attore – si legge in quel fondamentale laboratorio critico pasoliniano che rimane Pier Paolo Pasolini-Corpi e luoghi (edizioni Theorema,1981) dello stesso Perrella e di Michele Mancini – vive dell’ambiguità tra la vita e il cinema, si fa bordo, non-luogo, un vedere attraverso da cui interrogare i mutamenti storici e antropologici.
Il corpo viene allora reinvestito nel cinema come eterogeneo sociale, il concreto da cui aprire un sapere che è un sentire, una capacità di sguardo su un’interiorità sociale e culturale che interessa la Storia e al tempo stesso il Mito e il Sacro».
Nel misurarsi con la flagranza e la sostanza ideale (finalmente oltre l’ideologia) dei corpi-attori, questo cinema mette in gioco tradizionali criteri di realismo e verosimiglianza insieme a molti paradigmi che a quel tempo opponevano pratiche basse e alte.
Nei film pasoliniani il corpo che si fa pensiero impone dunque la trivialità del cinema non più dissimulata dall’autore e dall’arte, in grado di assumere «una precisa funzione in un lavoro di ampliamento dei limiti della fiction e dello stesso rapporto fiction-realtà».
Una strategia che aveva orientato, a partire dall’esordio di Accattone (1961), la straordinaria esperienza di esplorazione delle zone più impervie, periferiche e misere dei tanti sud italiani e del mondo.
Trasformare in gesto cinematografico il gesto di se stesso poeta significa, per Pasolini, dare forma al fare anima di quei corpi e luoghi, per riformularne visualmente la mitologia e confonderla, in un meditato e abbagliante gioco di specchi, con quella degli archetipi della classicità non solo occidentale.
Fu proprio nella penultima tappa del suo tortuoso percorso di cineasta, per due dei film di quella Trilogia della vita con cui volle celebrare la mistica dell’eros “innocente” attraverso la flagrante esibizione della realtà «arcaica» dei corpi unitamente alla «vitale violenza dei loro organi sessuali», che Pasolini compì l’estremo atto di fiducia nel valore del corpo esponendo il proprio, di corpo, davanti la macchina da presa.
In Il Decameron (1971) è un pittore discepolo di Giotto (ruolo per il quale aveva pensato di coinvolgere l’amico poeta Sandro Penna), e in I racconti di Canterbury (1972) è lo stesso autore di quel capolavoro letterario, lo scrittore Geoffrey Chaucer.
Evidente è l’autoreferenzialità di queste esposizioni di attore nei propri film.
Un «corpo in più», osserva Perrella nel già citato numero di Fiction, che evidenzia, mettendo in gioco la responsabilità dell’autore, l’esigenza di «ristabilire storicamente la bipolarità attore/regia che lavora il film e su cui si supportano i processi di valorizzazione nell’operazione cinematografica complessiva».
Esibendo la propria presenza allusiva (e fortemente ambigua per il suo ombroso vitalismo) in quanto scissione tra corpo e racconto, Pasolini utilizza simbolicamente il proprio corpo in un gesto concettuale, che anima lo spirito di questa Trilogia, utile a ribadire una stilistica pretesa di straniamento nel chiamare in causa (almeno utopisticamente) il pubblico di questi film perché possa assumere il ruolo di narratore collettivo.
Tutto ciò prima dello sprofondamento in una disillusione che condurrà alla clamorosa abiura della Trilogia stessa (frutto di un personale trauma amoroso ma anche conseguenza del successo commerciale di questi ultimi suoi film che svelò la tolleranza sospetta della società dello spettacolo) con la quale Pasolini “corsaro” decreterà, nel fatale 1975 di Salò o le 120 giornate di Sodoma, l’asservimento dell’amato arcaico mondo perduto alla società dei consumi, al nuovo fascismo capace di cancellare la differenza antropologica tra le classi, all’apocalisse culturale. Un’apocalisse contro la quale egli sostenne fino all’ultimo, pur dichiarandosi senza speranza, di voler continuare a lottare non smettendo d’investire sulla mistica (intrisa di autobiografismo) del suo personaggio di testimone tormentato.
Se Pasolini non fosse stato strappato troppo presto alla sua indomita operosità, probabilmente avrebbe continuato a utilizzare la propria autobiografia come punctum perturbante da incistare con il furore di sempre nel corpo stesso delle sue opere proiettate in un passato ancora avido di futuro.
Proprio in nome di questa ipotesi la sua morte violenta in quel 2 novembre fu vissuta come un lacerante detour culturale e politico.
A noi testimoni della sua influente sparizione spetta ancora il compito di elaborare la sua posterità controvoglia rilevando motivi e figure di quel corpo/mente che seppe farsi opera mondo.
Puntare sulla messinscena del proprio io come doppio fu una delle ossessioni dell’ultimo Pasolini che aveva cominciato a controllare in modo pressante l’esecuzione delle rappresentazioni del proprio personaggio pubblico. Nel gestire il proprio rapporto privilegiato con quello che doveva diventare il suo ultimo fotografo, Dino Pedriali, per degli scatti raffiguranti se stesso al lavoro da utilizzare come illustrazioni del suo estremo romanzo in progress Petrolio, il Pasolini delle ultime settimane dell’ottobre 1975 si comportava come un novello Erasmo da Rotterdam, il teologo e umanista assurto a esempio per il modo in cui seppe gestire la propria immagine pubblica, un metodo che lo conduceva, tra l’altro, a fornire indicazioni maniacalmente vincolanti ai propri ritrattisti.
Per quelle foto di sé stesso all’opera, il poeta-regista aveva stabilito modalità di realizzazione (il fotografo doveva riprenderlo a distanza e, per alcune pose, totalmente nudo) e location (la propria casa di Sabaudia e la propria fortezza-casale di Chia).
Il risultato di quelle istantanee, che Pedriali volle rendere pubbliche solo nel 1978, non è per niente artificioso, e anzi risulta magnificamente flagrante. Se è vero che si tratta indubbiamente di fotografie d’autore, è pure vero che esse lo sono in quanto esprimono la capacità di Pedriali di rappresentare Pasolini così come egli voleva essere visto. Come osserva acutamente Marco Belpoliti nel recente Pasolini e il suo doppio (Guanda, 2022), «il voyeurismo di Pasolini su sé stesso è trapassato nelle fotografie di Pedriali, che ne risulta il perfetto interprete.
Perciò queste immagini sono una testimonianza straordinaria di come Pasolini si vedeva (o voleva farsi vedere); ci dicono qualcosa d’inedito su di lui – o almeno di particolare e di unico».
La singolare capacità del personaggio Pasolini è dunque quella di rappresentarsi e di farsi rappresentare in modo trasparente e sincero come un doppio metaforico dotato di una irresistibile aura carismatica da vitale maudit che si presta a molteplici, e spesso opposte, interpretazioni, capaci ognuna di mettere alla prova coloro che le formulano.
Una testimonianza eloquente in tal senso sono le sue prove d’attore per opere di cui non firma la regia.
Prima delle sue partecipazioni alla Trilogia e della ieratica apparizione nel suo Edipo re (1967), egli accettò di recitare per il vecchio amico Carlo Lizzani in due film dove incarna con notevole convinzione personaggi di rivoluzionari: il Gran sacerdote di Requiescant (1967), che diventa capopopolo dei campesinos durante la Rivoluzione messicana, e Leandro il monco, focoso e livoroso idealista malvivente in Il gobbo (1960), ispirato alle vicende dell’ex partigiano bandito Giuseppe Albano detto il Gobbo del Quarticciolo.
È noto che l’esperienza in quest’ultimo ruolo contribuì a fornire materiale iconografico ai suoi persecutori durante uno dei tanti episodi di linciaggio mediatico: alcuni articoli, che riportarono con clamore la cronaca di una denuncia calunniosa nei suoi confronti (culminata in una sentenza di condanna in primo grado senza alcuna prova) per una rapina a mano armata in una stazione di servizio al Circeo, vennero strumentalmente illustrati da foto di scena proprio di questo film dove Pasolini/Leandro imbraccia un mitra.
Come mostrano le illustrazioni a corredo di queste note, l’immagine del corpo di Pasolini si predispose pure a essere oggetto privilegiato di un vero e proprio assalto polemico da destra che puntava con toni ostentatamente omofobici ad alimentare lo scandalo della diversità sessuale esibita da quella che veniva identificata come la casta degli intellettuali protetti a sinistra da una nomenklatura culturale dominante individuata come ideologicamente nemica.
Bollettino di questa persecuzione mediatica, che assunse accenti talmente beceri e bigotti da apparire fin da allora grotteschi, fu Il Borghese il cui n. 1 arrivò nelle edicole nel marzo 1950.
Diretta da un Leo Longanesi, che ne disegnava le vignette di copertina (ma che aveva già perso la brillantezza dei suoi anni migliori, con alle spalle l’esperienza, assai più significativa, del periodico Omnibus e, prima ancora, del settimanale letterario L’italiano), la rivista fu propugnatrice di un «conservatorismo sfiduciato e violento» (la definizione è di Mario Soldati), e contò solo inizialmente sull’apporto di collaboratori autorevoli (da Savinio a Prezzolini, da Jünger a Pannunzio, e poi Montanelli e un giovane Spadolini).
A partire dal giugno 1953 venne inaugurato un inserto fotografico commentato da didascalie satiriche animate da uno sprezzante e ottuso qualunquismo.
La breve antologia che proponiamo la dice lunga sulle qualità di questi affondi che ammiccavano al gusto del «popolo più analfabeta e della borghesia più ignorante».
Il popolo e la borghesia di un Belpaese nel quale, però, valeva ancora la pena di combattere una battaglia del desiderio che allora sapeva come attivare una dialettica, e posizionarsi politicamente “contro”.
Quel Pasolini che “Il chi è” del “Borghese” (in una voce redatta da Luigi Bartolini, lo scrittore di Ladri di biciclette) presentava come uno che «andava a scuola di lingue nei bordelli della periferia di Porta Portese dove esiste un pubblico canile anche pei letterati arrabbiati», era il Pasolini che aveva appena cominciato a elaborare l’immagine perturbante del proprio corpo e della propria voce perché il suo pubblico potesse riconoscersi carnalmente e persino eroticamente in essa.
Era ancora sideralmente lontano il tempo delle abiure e del partito preso sulla “scomparsa delle lucciole” che “al termine della notte” avrebbe decretato, come scrive George Didi-Huberman nel suo Survivance des lucioles (risposta all’apocalittica polemica pasoliniana), «la fine di quella danza del desiderio che dà vita a una comunità, quella stessa che Pasolini avrebbe diretto nell’ultima scena di Salò; quella stessa che forse cercava ancora sulla spiaggia di Ostia poco prima che sopraggiungessero i fari dell’auto che fece scempio del suo corpo».
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